La Pa non è per sempre
Il caso delle “porte girevoli” di Bankitalia e l’utile contaminazione tra settore pubblico e privato
L’importanza della diversità e del pluralismo è ormai diffusamente accettata, tranne che in un caso: il settore pubblico italiano. Lo dimostrano le polemiche di questi giorni su tre ex dipendenti della Banca d’Italia – due dei quali neppure di livello dirigenziale – che, dopo Via Nazionale, sono stati assunti dalla Banca popolare di Vicenza (rispettivamente nel 2006, nel 2008 e nel 2013). I sospetti sui potenziali conflitti tra le precedenti attività di vigilanza e il successivo rapporto di lavoro hanno costretto Banca d’Italia a un inusuale comunicato stampa sugli incarichi ricoperti dai suoi funzionari, nessuno dei quali relativo all’istituto veneto.
Dietro questa polemica si nasconde un tema più sottile, che prescinde dalle carenze nella vigilanza bancaria, dalla riconferma del governatore, dalle persone coinvolte e perfino dai battibecchi politici. Prescinde, insomma, da ogni elemento di attualità e riguarda piuttosto lo statuto non scritto del pubblico impiego: come il diamante, un posto pubblico è per sempre. I passaggi tra pubblico e privato sono visti con sospetto e si prestano a devastanti strumentalizzazioni.
La Pa italiana soffre di un blocco del turnover ormai decennale, ha l’età media più alta dell’Ocse, e conseguentemente ha un mix di competenze inadeguato alle sue attuali funzioni. L’impossibile osmosi con esperienze e professionalità esterne – sia in uscita, sia in ingresso – non fa che esacerbare il problema, rendendo l’amministrazione sempre più autoreferenziale: molti funzionari (e soprattutto dirigenti) hanno seguito gli stessi studi (giuridici), hanno vinto un concorso grosso modo negli stessi anni, hanno seguito carriere parallele e non hanno mai avuto occasione di “contaminarsi” con punti di vista e metodi di lavoro differenti. In qualunque altro contesto sarebbe considerato un problema: nel pubblico viene dichiarata una virtù.
Eppure, non manca l’evidenza che le “revolving door” possano essere uno strumento positivo di selezione del personale. Ci sono due modelli per interpretarne il comportamento. Uno è quello del “quid pro quo”: i dipendenti pubblici approfittano del proprio ruolo per fare favori e vengono poi ricompensati con assunzioni e stipendi generosi nel privato. In alternativa, si può supporre che siano guidati da un incentivo reputazionale: la vera opportunità professionale nel privato non deriva dai meriti di breve termine conquistati a suon di “marchette” (su cui comunque potrà sempre intervenire la giustizia), ma dal dimostrare di essere competenti e preparati. L’esperienza nel pubblico determina un valore aggiunto professionale nel privato, e l’esperienza nel privato rappresenta un bagaglio importante per un più incisivo esercizio delle funzioni pubbliche. Per esempio, Sumit Agarwal, David Lucca, Amit Seru e Francesco Trebbi hanno esaminato i flussi tra gli istituti finanziari e i regolatori bancari americani senza trovare evidenza di “quid pro quo” (ma in modo coerente con la teoria della reputazione). In un ambito collaterale, quello dei passaggi tra le agenzie di rating e le imprese quotate, Elisabeth Kempf ha addirittura mostrato che gli avanzamenti di carriera erano più significativi per gli analisti più inflessibili.
Più l’amministrazione si arricchisce di individui con esperienza nel privato (e può succedere solo se viene percepita come una fase della vita professionale, anziché un biglietto di sola andata), più ne guadagnerà in efficacia e nella qualità del rapporto tra cariche elettive e burocrazia. E’ proprio la politica, infatti, ad averne il massimo interesse, perché solo così si può impedire quella fossilizzazione che troppo spesso l’ha tenuta in ostaggio.
Naturalmente il tema dei conflitti di interesse è serio e va disciplinato. L’Italia negli anni si è dotata di norme rigorose: dal 2014 i dirigenti apicali che lasciano la Pa non possono lavorare per soggetti regolati per almeno due anni. Inoltre, tra il bianco della legalità e il nero dell’illegalità, la soft law anticorruzione di Raffaele Cantone sta colmando la zona grigia dell’inopportunità – segnalando peraltro come proprio l’inamovibilità dei vertici amministrativi sia un problema perfino più pressante rispetto alle porte girevoli.
La politica ha le sue ragioni che la ragione non conosce: ma una polemica che finisca per acuire l’autoreferenzialità del settore pubblico è un autogol nel derby ventennale tra primato della politica e arbitrio dell’amministrazione.
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