Da Unipol a Mps fino a Etruria: le banche degli altri
Come la passionaccia della sinistra per la finanza si è sempre trasformata in una lotta fratricida e autolesionista. Una lotta spesso vinta da altri
La lunga storia della sinistra italiana e delle sue contese intestine ha intercettato spesso le vicende del sistema bancario, con i suoi non meno complicati e mutevoli giochi di posizione, i suoi scandali e le sue traversie giudiziarie, finendone spesso intercettata.
E’ infatti con gli scandali bancari del 2005 che la stampa italiana inaugura un nuovo genere giornalistico-letterario: la pubblicazione integrale di verbali d’intercettazione così come sono, come fossero articoli già fatti e finiti, senza filtro, per pagine e pagine, con tanto di “pronto… chi parla?”, volgarità, non-sense, battute destinate a passare alla storia (come quella di Stefano Ricucci: “Stamo a fa’ i furbetti del quartierino”) o direttamente alla filosofia (“Volete fa’ i froci cor culo degli altri”, sempre Ricucci). Un immenso minestrone di frasi smozzicate, insinuazioni inverificabili, uscite incomprensibili, incomprese e spesso anche equivocate. Come quella che per un attimo trascina sotto i riflettori anche l’ex ministro Vincenzo Visco, giudicato colpevole di avere telefonato personalmente, nel pieno della guerra termonucleare che nel frattempo infuria su banche e giornali sotto scalata in Borsa, al capo della Vigilanza della Banca d’Italia. Considerando la vicinanza dell’ex ministro a Massimo D’Alema e tutti i sospetti che circondano le sue presunte manovre tra politica e finanza, sembra la prova decisiva di un’ingerenza politica pesantissima e inaccettabile. Ma è solo un equivoco, nato dal fatto che la segretaria che ha preso l’appunto ha riferito della telefonata di Visco senza specificare l’ovvio, e cioè che si tratta di Ignazio Visco, allora direttore centrale per le attività estere della Banca d’Italia, e attuale governatore. In compenso usciranno presto, anche grazie a registrazioni illegalmente effettuate e/o illecitamente pubblicate, le conversazioni degli stessi Piero Fassino e Massimo D’Alema, che con i loro rispettivi “Abbiamo una banca” e “Facci sognare”, al telefono con l’ad dell’Unipol, Giovanni Consorte, confermano con quanta attenzione e partecipazione seguissero il suo tentativo di scalata alla Banca nazionale del lavoro. Come del resto non mancheranno di rivendicare, anche di fronte ai non pochi compagni di partito e alleati che ne approfittano per metterli sotto accusa sui giornali.
L’opportunità che la politica si interessi del credito (e del potere) torna a far parlare la stampa. Come accade ormai da un decennio
Lo scontro che oggi si consuma attorno alla commissione banche non è infatti che l’ultimissima figurazione di una quadriglia cominciata almeno dieci anni fa. E che ha visto, secondo un’antica e consolidata tradizione, tutti i suoi protagonisti scambiarsi di posto e di ruolo almeno una mezza dozzina di volte. Oggi si parla infatti di quello che Maria Elena Boschi avrebbe o non avrebbe detto all’allora amministratore delegato di Unicredit riguardo alla crisi di Banca Etruria, sullo sfondo delle pesanti critiche che i vertici del Pd, a partire da Matteo Renzi e Matteo Orfini, hanno mosso ai vertici della Banca d’Italia. Dieci anni fa si parlava di quello che i vertici dei Ds, Fassino e D’Alema, avrebbero o non avrebbero potuto dire all’ad di Unipol, sullo sfondo delle non meno accese polemiche che investivano nel frattempo Bankitalia e il governatore di allora, Antonio Fazio. La differenza fondamentale, tra i commenti di ieri e quelli di oggi, è che allora segretario e presidente dei Ds erano accusati da tutti i giornali di non dire una parola contro il governatore, nascondendosi dietro l’alibi del rispetto per l’istituzione Bankitalia, la sua indipendenza e il suo ruolo di cardine del sistema economico.
Oggi il segretario e il presidente del Pd sono messi sotto accusa da tutti i giornali, al contrario, proprio per averlo criticato, e quindi per aver messo a rischio, con le loro irresponsabili dichiarazioni e con la mozione parlamentare presentata in parlamento, l’istituzione Bankitalia, la sua indipendenza e il suo ruolo di cardine del sistema economico.
Nel frattempo, si capisce, tante cose sono cambiate. Sono cambiati i partiti (da Ds e Margherita siamo ormai passati al Pd), sono cambiati i gruppi dirigenti (da Bersani e D’Alema a Renzi e Orfini), sono cambiate le alleanze (dall’interminabile Unione di Prodi all’improbabile unioncina che i democratici stanno cercando di mettere insieme in questi mesi). A non cambiare mai, però, è la regola aurea secondo cui, nei momenti di difficoltà, il nemico più feroce è sempre il più prossimo.
Sono cambiati i partiti, i gruppi dirigenti, le alleanze. Non cambia mai la regola secondo cui il nemico più feroce è sempre il “compagno”
“Usciamo da questa ipocrisia”, dice all’inizio di maggio Ferruccio de Bortoli, a margine di una presentazione del suo libro “Poteri forti (o quasi)”, dopo che la sua ricostruzione di alcune conversazioni tra Boschi e l’ad di Unicredit ha sollevato un caso politico tale da far tremare un governo. “E’ abbastanza naturale – osserva candidamente l’ex direttore del Corriere della Sera – che un personaggio politico si occupi delle vicende bancarie o economiche che riguardano il proprio territorio, è assolutamente normale, no? Anzi, mi stupirei del contrario”. E subito aggiunge: “Però un conto è occuparsene e magari rappresentare a un banchiere importante la propria apprensione per il fatto che naturalmente sono vicende che coinvolgono azionisti, obbligazionisti, depositanti; diverso ovviamente è esercitare delle ingerenze o delle pressioni. Io non lo so, io ho scritto semplicemente che c’è stato un interessamento”.
Al centro dell’attenzione torna così un tema caro alla stampa italiana: di che cosa si possa o si debba interessare un leader politico, e in particolare un leader della sinistra, quando si tratta di economia e finanza, scalate di Borsa e crisi bancarie, fallimenti e acquisizioni. Dice De Bortoli che è naturale che un politico se ne occupi e manifesti magari “apprensione”, non che eserciti “pressioni” o “ingerenze”. E sembra di risentire le discussioni del 2005 intorno al grado di partecipazione politica, psicologica ed emotiva dei dirigenti della sinistra alla scalata di Unipol alla Bnl, e più in generale sulla legittimità di un simile interessamento. Allora i vertici dei Ds erano accusati di avere “tifato per l’Unipol” anche da un pezzo consistente della loro coalizione (ad esempio dal presidente della Margherita, Arturo Parisi, che sul Corriere della Sera parla di una nuova “questione morale”), e persino del loro stesso partito (ad esempio Giorgio Napolitano, che dalle colonne di Repubblica chiede a Fassino e D’Alema di fare “autocritica”). Oggi Maria Elena Boschi annuncia un’azione civile contro De Bortoli, dopo avere minacciato ma mai presentato una querela per diffamazione, raccogliendo subito la solidarietà degli ex compagni di partito. A De Bortoli, s’intende.
“Conoscendo De Bortoli, sono incline a pensare che la sua versione sia vera”, dichiara Massimo D’Alema. “Ferruccio de Bortoli è un grande professionista – assicura Pier Luigi Bersani – è una persona seria e perbene. Non riesco a pensare che possa essersi inventato qualcosa”. Vedremo cosa dirà l’ex amministratore delegato di Unicredit convocato, dopo molte polemiche, in commissione banche. Certo è che ai tempi della battaglia intorno alla scalata Unipol, la fiducia dei vertici della sinistra nel rigore e nell’imparzialità dei giornalisti appariva meno inflessibile.
D’altra parte, la guerra delle banche capita in un momento doppiamente delicato: perché si è a un anno dalle elezioni (del 2006, s’intende), e perché si è nel pieno di quel lungo e complicato processo di unificazione tra Ds e Margherita che porterà, un altro paio d’anni più tardi, alla nascita del Pd (i due partiti si sono presentati uniti alle europee del 2004, raccogliendo un notevole 31 per cento, ma la partita a scacchi tra i rispettivi gruppi dirigenti è appena cominciata). Il primo ad approfittare della situazione per riequilibrare i rapporti di forza è infatti proprio il leader della Margherita, Francesco Rutelli, peraltro tra i più freddi sull’idea del partito unico. La politica del centrosinistra, dichiara, dev’essere “una politica che orienta e regola ma che non tifa, soprattutto che non promuove cordate”. E più avanti, a battaglia ormai vinta, non esita a parlare addirittura del tentativo di costruire un grande “centro di potere” politico-finanziario. “Ho letto decine di interviste – s’infervora D’Alema in un forum all’Unità – a favore o contro questa Opa. Persino Bertinotti ne ha rilasciato una con il titolo: ‘Il Banco di Bilbao deve comprare la Bnl’. Sarà lecito, dunque, se tanta parte del mondo politico tifava per gli spagnoli, che qualcuno tifasse per gli italiani”. Una cosa è sicura, se si intendeva costruire un grande “centro di potere” della sinistra, sono in parecchi a mancare all’appello. Per il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, Unipol è “troppo piccola per scalare la Bnl”. Per il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, l’Opa è “incongrua”. Secondo l’editore di Repubblica, Carlo De Benedetti, si tratta di “un’operazione di potere senza logica di mercato”. Eugenio Scalfari scomunica subito l’intero disegno: “Se questi sono gli strumenti adoperati da Consorte, Dio ci scampi da un capitalismo cooperativo di tale fatta”. Anche perché la battaglia di Unipol si intreccia con quella ingaggiata per il controllo di un’altra banca, l’Antonveneta, da Gianpiero Fiorani, e con la scalata che Stefano Ricucci, uno degli immobiliaristi dall’oscuro passato raccolti attorno a Fiorani, lancia clamorosamente proprio alla Rcs, trasformando così il Corriere della Sera, al tempo stesso, nell’oggetto non meno che nel protagonista di una battaglia che si combatte senza esclusione di colpi, anche e forse soprattutto sui giornali. E che si tinge subito dell’inevitabile coloritura politica: la “bicamerale della finanza” (oggi sarebbe stato senza dubbio “il Nazareno della finanza”: ogni stagione ha i suoi feticci e le sue cacce alle streghe). In altre parole, un gigantesco complotto politico-finanziario che secondo gli accusatori legherebbe le scalate degli immobiliaristi ad Antonveneta e Corriere della Sera, ben visti se non teleguidati da Silvio Berlusconi, con l’Opa dell’Unipol di Consorte, cioè delle coop rosse, cioè di D’Alema, alla Banca nazionale del lavoro.
Modello Wimbledon o Guicciardini? Quello secondo cui la signoria locale cede pezzi della penisola al re di Francia o di Spagna
Alleati, compagni di partito, giornali e settimanali progressisti incalzano i vertici dei Ds, chiedendo loro di prendere le distanze da tali oscure manovre. “Noi – spiega Bersani in un’intervista a Repubblica – ci eravamo tenuti fuori dalla scalata Bnl. Siamo intervenuti quando qualcuno ha cercato di negare il diritto alle coop di fare la propria gara. Le coop non sono figli di un dio minore”. Ma ormai la campagna di stampa che accomuna i manager di Unipol agli immobiliaristi, D’Alema a Berlusconi e l’intera vicenda all’ennesima puntata dell’infinito romanzo cospirazionista italiano, ha già sommerso tutto.
A fare da contraltare agli speculatori senza scrupoli che hanno tradito i nobili valori della cooperazione e della sinistra, in compenso, c’è il Monte dei Paschi di Siena. “Sarà Siena a salvare la sinistra?”, si domanda Gianni Barbacetto, nel luglio del 2006, sul settimanale Diario. “Saranno i Ds senesi a salvare il soldato Piero, assediato dagli alleati in nome della questione morale? Perché qui hanno detto no. Un no chiaro e pesante. Sono rimasti fuori dai giochi del gruppo bipartisan lanciato nel grande assalto che doveva conquistare, con una manovra a tenaglia, Antonveneta, Bnl, Corriere della Sera. Possono così ambire a rappresentare, di fronte all’Italia intera, la sinistra e i Ds che hanno rifiutato le scalate occulte, le manovre sotterranee, le amicizie pericolose, le commistioni con personaggi poi finiti sotto indagine”.
Alla guida del Monte dei Paschi (prima della Fondazione e poi della banca) c’è Giuseppe Mussari. E’ lui, in quel momento, l’esempio di una finanza perbene, che non si mischia con immobiliaristi venuti da non si sa dove, che fa onore ai valori storici della sinistra e al territorio che rappresenta. Basta vedere la sua intervista al Corriere della Sera, nell’agosto 2006, con il giornalista a premettere che “non sembra avere nulla del finanziere tutto stock option e rendimenti”, e il banchiere, a conferma dell’assunto, che attacca così: “Di manovra economica parliamo dopo. Vorrei iniziare dal Libano. L’ultima prova che la situazione internazionale, senza uno sviluppo ordinato ed equo, è destinata a vedere sempre nuovi focolai di tensione”. Inutile dire che senza il fermissimo rifiuto di partecipare con Unipol alla scalata Bnl da parte di Mps, la conquista della Bnl sarebbe stata una passeggiata.
E così, invece, la Bnl finisce ai francesi di Bnp Paribas e l’Antonveneta agli olandesi di Abn Amro. Per la gioia dei tanti esponenti del cosiddetto “salotto buono” della finanza italiana, tutti convinti sostenitori del “modello Wimbledon”: quello secondo cui l’interesse del paese, in tema di economia e finanza, è solo fissare le giuste regole, senza preoccuparsi della nazionalità di chi vince il torneo. Trattandosi di quel ristrettissimo gruppo di soggetti che allora controllava le principali banche e i principali giornali del paese (oggi qualcosa di meno), e visto come sono andate le cose in questi anni, più che di modello Wimbledon, si dovrebbe parlare forse di modello Guicciardini: quello secondo cui la signoria locale preferisce cedere interi pezzi della penisola al re di Francia o di Spagna, piuttosto che lasciar emergere o rafforzarsi i connazionali rivali. D’altronde lo stesso Diego Della Valle, azionista di rilievo tanto di Bnl quanto del Corriere della Sera, non esita a parlare, a proposito degli scalatori, di “Lanzichenecchi”.
Il gioco delle accuse reciproche. Prima Renzi aveva attaccato Bersani e D’Alema su Mps, ora loro lo ripagano con la stessa moneta
A volte però succede che anche ai principi vendicatori chiamati da fuori il bottino resti sullo stomaco. E così la stessa Abn Amro, poco dopo l’acquisto di Antonveneta, finisce preda di un consorzio di banche internazionali. Del consorzio fa parte il Banco Santander, che al momento di dividere le spoglie nemiche sceglie per sé proprio l’istituto padovano. Per rivenderlo, nel giro di nemmeno due anni, ironia della storia, proprio al Monte dei Paschi di Siena. Operazione celebrata sui grandi giornali come il coronamento di un’accorta e oculata gestione, come il giusto premio che alfine onora il merito, frutto del lavoro serio e paziente di manager che non si fanno condizionare dalla politica, che non hanno dimenticato i valori, che non trascurano il territorio. Non molto tempo dopo, al culmine della gloria, Giuseppe Mussari è eletto per acclamazione presidente dell’Associazione bancaria italiana. Eppure oggi proprio l’acquisto di Antonveneta, pagata circa 10 miliardi di euro, è considerato da molti la prima causa del dissesto del Monte dei Paschi. Tra tanti tardivi critici di Mussari, ce ce n’è però almeno uno che di sicuro non si è svegliato oggi. “Quando da presidente Unipol – ricorda Giovanni Consorte – gli telefonai per suggerirgli di far comprare Bnl da Mps, garantendogli il nostro appoggio, mi rispose gelido: ‘Anche a Siena abbiamo il pallottoliere’. Certo non l’ha usato nell’acquisto Antonveneta…”. Ma ormai, dopo la crisi che ha travolto il Monte dei Paschi, l’acquisto di Antonveneta non lo difende più nessuno.
Eppure, sul banco degli imputati, ci sono sempre loro: i vertici dei Ds prima e del Pd poi. Intenti però a scambiarsi di posto, in questa interminabile danza attorno alle poltrone della politica e della finanza, tra accusatori e accusati. Con Renzi che sceglie di chiudere la campagna per le primarie del 2012 proprio a Siena, per imputare a Bersani e a tutta la vecchia guardia del partito i guai della banca. Con Bersani e D’Alema che all’indomani della nuova crisi di Mps, e soprattutto dopo i fallimenti delle banche venete e toscane, non mancano di ripagarlo con la stessa moneta. Senza rendersi conto, né gli uni né l’altro, che l’unico risultato di questo gioco sfibrante e autolesionistico è di finire condannati tutti insieme per manovre, complotti e macchinazioni di cui sono stati, semmai, le vittime.
Verrebbe quasi da pensare che se lo meritino.
Il Foglio sportivo - in corpore sano