I finanziatori e la politica interna muovono l'azione di Trump
Con la decisione su Gerusalemme accontenta Adelson e gli evangelici che lo hanno messo alla Casa Bianca
New York. Il motivo per cui Donald Trump ha deciso di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, e di avviare la complicata procedura per il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv, ha a che fare con la logica del palazzo e del consenso interno più che con le ragioni della geopolitica. A dimostrarlo basterebbe il fatto che la segreteria di stato e il dipartimento della Difesa hanno dato parere negativo all’operazione, sponsorizzata invece dai consiglieri della Casa Bianca, che misurano le decisioni strategiche sulla base dell’impatto domestico. Un imbarazzato Jim Mattis, segretario del Pentagono, ha spiegato ai cronisti che “come sempre non rivelo i consigli che do al presidente”.
Trump deve la sua posizione anche a una serie di finanziatori inizialmente recalcitranti che hanno aperto il portafogli quando il candidato ha promesso il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme. Il più importante fra questi è Sheldon Adelson, magnate dei casinò di Las Vegas e sostenitore fattivo della causa israeliana, che Trump ha corteggiato fin dall’inizio della campagna elettorale, quando pubblicamente diceva di non aver bisogno dei “big donors” che fanno tanto vecchia politica. Adelson, che nei decenni ha sostenuto molti candidati dell’establishment repubblicano, ha resistito alle richieste di Trump, fino a quando, nel marzo del 2016, il candidato ha fatto la sua promessa sul palco dell’American Israel Public Affairs Committee: “Sposteremo l’ambasciata americana nell’eterna capitale del popolo ebraico, Gerusalemme”. Adelson si è convinto così a firmare un assegno da venti milioni di dollari per un comitato politico di Trump e ad aggiungere una donazione da quasi due milioni per la convention repubblicana a Cleveland.
Da quel momento si è creato un filo diretto fra lui e il presidente, e già in diverse occasioni il finanziatore ha fatto pressioni sul presidente perché mantenesse la sua promessa. A giugno, dopo che Trump ha rinnovato la sospensione del trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme (il trasferimento è stabilito per legge dal 1995, ma da allora i presidenti hanno impedito l’attuazione del piano con un decreto che viene rinnovato ogni sei mesi), Adelson ha espresso la sua frustrazione per tramite di Jared Kushner, che era stato il broker dell’apparizione di Trump all’Aipac e della conseguente promessa. A ottobre il tycoon ha riproposto le stesse critiche di persona in una cena alla Casa Bianca, e già si era fatto sentire attraverso Steve Bannon, che finché è rimasto alla Casa Bianca come capo della strategia ha lavorato alacremente per sbloccare la vicenda gerosolimitana.
Non è semplice garantirsi la fedeltà di uno come Adelson. Lo sa bene appunto Bannon, che ha coltivato i rapporti salvo poi vedersi rifiutare aspramente ogni sostegno quando ha lanciato la campagna per disarcionare i senatori dell’establishment e far cadere il leader del Senato, Mitch McConnell: Adelson e sua moglie, ha detto un loro portavoce, “stanno al 100 per cento con McConnell”. La campagna pro Israele è l’unica costante in mezzo alle variabili impazzite di quella parte del mondo repubblicano. Accanto ad Adeslon c’è una rete di evangelici e di cristiani sionisti che sostengono con fervore l’attuazione di ciò che la legge americana già afferma a proposito di Gerusalemme. Trump non si è solo circondato di leader della destra religiosa come Ralph Reed, della Faith and Freedom Coalition, oppure il reverendo texano Robert Jeffress, ma ha innalzato questa corrente al rango di base di riferimento. Gli evangelici hanno finanziato e sostenuto l’ascesa del meno evangelico dei presidenti, e ora raccolgono i frutti: la nomina di un giudice gradito alla Corte suprema, la battaglia al Johnson Amendment, che impedisce alle chiese di fare attività politica, la revoca del mandato di Obama sui contraccettivi obbligatori negli enti di ispirazione religiosa e ora la dichiarazione di Gerusalemme capitale di Israele, prodromo del trasferimento dell’ambasciata, che era poi la sostanza della promessa trumpiana.
Inoltre, c’è per l’inconcludente Amministrazione Trump l’esigenza di mettere in cascina risultati spendibili presso l’elettorato, e poco importa se si tratta di conquiste simboliche. La questione di Gerusalemme si colloca nello stesso filone dell’abbandono dell’accordo di Parigi e della decertificazione del deal nucleare con l’Iran: sono manovre ad alto coefficiente simbolico che qualificano Trump come leader decisionista che non si lascia irretire dalle convenzioni della politica. Un’inserzione a pagamento sul New York Times acquistata dal Republican Jewish Committee rappresenta bene il concetto: si vede il presidente assorto al muro del pianto, e sotto la scritta giubilante: “You promised. You delivered”.
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