Una controinchiesta sul Movimento 5 stecche (musicali)
Perché gli stonati moralizzatori oggi non possono difendersi da un’inquisizione creata da loro: il tribunale del popolo
In campo musicale, quando si suona uno strumento con una piccola dose di superficialità, chi emette una nota sbagliata, chi rende la sinfonia sgradevole, stridula, viene accusato di aver preso una stecca. Il Movimento 5 stelle oggi, se ci pensiamo bene, anche alla luce della dura inchiesta romana, si trova nelle condizioni di un musicista che per ragioni diverse ogni volta che si avvicina al suo suo strumento sa che le note che verranno prodotte non potranno che essere sgradevoli.
Nel caso specifico, le note sgradevoli prodotte dai moralizzati moralisti grillini oggi non riguardano tanto la presunta corruttibilità dei casaleggini finiti al centro dell’inchiesta sulla corruzione romana ma riguardano un piano del tutto diverso. Si tratta di un altro strumento, che i grillini non possono suonare semplicemente perché hanno creato le condizioni giuste per produrre soltanto stecche: lo strumento della difesa dal processo mediatico.
Virginia Raggi – la stessa che anni fa chiese le dimissioni di Ignazio Marino non per l’arresto del suo braccio destro, non per l’arresto del capo della municipalizzata più importante di Roma, non per l’indagine sul capogruppo del suo partito in Consiglio comunale ma per una Panda lasciata in doppia fila – ha ragione quando accusa i giornali di aver fatto a pezzi la presunzione di innocenza e di aver trasformato un’inchiesta circoscritta ad alcuni personaggi in una caccia alle streghe. Ma il motivo vero per cui nessun grillino riesce a non steccare quando prova a difendersi dall’inchiesta della procura di Roma è che il giudice che sta inquisendo la non indagata Virginia Raggi, il non indagato Luigi Di Maio, il non indagato Davide Casaleggio non è quello che si trova all’interno di una procura ma è quello che si trova in uno spazio particolare curato con amore in questi anni dagli stessi grillozzi sfiorati dallo tsunami tour dell’inchiesta di Roma: il tribunale del popolo.
E di fronte al tribunale del popolo, di fronte cioè a quel barbaro sistema medievale che trasforma un’indagine in una condanna, un’intercettazione in una sentenza, un sospetto in una certezza, un titolo di giornale in un anticipo di pena, non c’è difesa che tenga, semplicemente perché quando un processo passa dalle aule di un tribunale alle pagine dei giornali non esiste alcuna difesa possibile che non somigli a una stecca. Ieri, sulla Stampa, un simpatico sottosegretario della Lega, Stefano Candiani, ha rivolto un commovente appello alle forze politiche per invitare tutti a essere molto più cauti e a dire no in modo convinto a questa onda di giustizialismo: “Siamo fin troppo abituati a indagini che diventano sentenze preventive salvo poi scoprire anni dopo che le cose stavano diversamente”.
Ma quello che gli azionisti di questo governo fanno finta di non vedere – d’altronde se ci si allea con un partito fondato da un comico si rischia un po’ tutti di fare del cabaret – è che se in Italia una cena può diventare un reato anche senza crimini commessi (Parnasi che si vede con Giorgetti e Lanzalone), se una spacconata viene intesa non come una millanteria ma come una prova (Parnasi che dice al suo commercialista: “Il governo lo sto a fare io, eh! Non so se ti è chiara questa situazione”), se un finanziamento a un partito diventa un crimine anche se non ha nulla di illegale (“E’ un investimento che io devo fare, e la sostanza è che la mia forza è che alzo il telefono e…”), se un politico legato a un imprenditore arrestato viene considerato compromesso fino a prova contraria (vale per Luigi Di Maio, vale per Matteo Salvini, vale per Virginia Raggi), se un ex parlamentare viene tempestato di domande rispetto alle fonti del suo sostentamento (“Il modo in cui io campo con la mia famiglia – ha detto il nostro amato Ale Dibba – non essendo più un pubblico ufficiale sono cazzi miei”) la ragione è proprio quella che i moralisti moralizzati oggi non vogliono vedere.
Chi è che ha trasformato il sospetto non nell’anticamera del khomeinismo ma nell’anticamera della verità? Chi è che ha trasformato un’accusa virale in una prova reale? Chi è che ha creato l’illusione che un politico non abbia bisogno di soldi per fare politica? Chi è che ha spacciato il dovere allo sputtanamento in un diritto di cronaca? Chi ha eliminato dallo spazio del dibattito pubblico il confine che separa un atto immorale da uno illegale? Chi è che ha contribuito a far diventare un nome che “spunta” in un’intercettazione in un nome “coinvolto” in un’inchiesta? E chi è che ha tolto dal commercio ogni vaccino indispensabile per curare quella grande patologia italiana che trasforma il garantismo in un sinonimo di gargarismo e non di rispetto dello stato di diritto? Ieri il capo del movimento cinque stecche (musicali) ha detto che “per reati così gravi non esiste la presunzione d’innocenza”. E senza rendersene conto Luigi Di Maio ha dimostrato non solo che nella logica marcia del grillismo il codice di un blog vale più di un articolo della Costituzione (la presunzione di innocenza vale per tutti i reati, non per quelli decisi dal blog delle stelle) ma ha dimostrato che a differenza di altre indagini per i grillini “coinvolti” nell’inchiesta non c’è difesa possibile: quando il tribunale che deve giudicarti è quello del popolo, e quando lo stato di diritto viene usato come se fosse una ceretta per depilarsi, il verdetto vero deriva non dall’insieme delle prove ma dall’insieme dei sospetti. Il giustizialismo è una lente che deforma la realtà. Ma mai come oggi i moralizzatori moralizzati dovrebbero chiedersi chi è che ha abituato gli elettori a osservare il mondo con le orrende lenti della gogna.
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