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Una manovra fondata sullo sfondare le tasche dei cittadini

Luciano Capone

Il governo prevede aumento della pressione fiscale e moltiplicatori miseri. L’Istat fa il conto del costo dello spread

Roma. Il governo ha pubblicato l’Aggiornamento del quadro macroeconomico e di finanza pubblica, che poi sarebbe la nuova versione del Documento programmatico di Bilancio aggiornato alle modifiche alla manovra concordate con la Commissione europea e approvate definitivamente con la legge di Bilancio. Sono due i dati che vale la pena evidenziare. Il primo riguarda la pressione fiscale, che per stessa ammissione del governo sale dal 41,9 per cento del 2018 al 42,3 per cento del 2019. E’ un aumento notevole, di circa mezzo punto, che arriva dopo cinque anni di continua (anche se non enorme) riduzione della pressione fiscale. Questa tendenza si arresta e si inverte proprio nell’anno in cui l’Italia si allontana dagli obblighi – costituzionali ed europei – di disciplina fiscale. Questo vuol dire che le tasse non verranno ridotte quest’anno e neppure nei prossimi, anzi: oltre all’aumento per il 2019 sono previsti 52 miliardi di maggiori imposte nel biennio successivo attraverso l’aumento del’Iva. Più tasse oggi e molte più tasse domani.

  

E per questo esecutivo non vale neppure, come giustificaizone, il fatto che il governo precedente avesse previsto attraverso le clausole di salvaguardia un aumento di circa 12 miliardi dell’Iva. Perché, secondo il Documento programmatico di Bilancio del governo, la pressione fiscale secondo il precedente quadro tendenziale sarebbe arrivata al 42,2 per cento, un punto decimale in meno rispetto a quanto previsto dalla Legge di Bilancio: questo vuol dire che se il governo non avesse fatto nulla, pur con il consistente aumento già prevista dell’Iva, la pressione fiscale sarebbe comunque stata inferiore. E questo sperando che le previsioni di crescita all’1 per cento – tagliate di un terzo ma pur sempre ottimistiche – si realizzino, altrimenti la pressione salirà ulteriormente. In questo senso si può dire che il vero cambiamento di questo governo è l’aumento delle tasse.

   

L’altro aspetto rilevante di una manovra fatta sostanzialmente di aumento della spesa corrente è l’impatto delle misure sul pil. L’impostazione della politica economica del governo è il prodotto coerente di una visione statalista e pseudo-keynesiana, secondo cui in una fase di rallentamento l’aumento della spesa dovrebbe innescare un forte aumento della crescita. Quante volte abbiamo sentito dire da esponenti del governo che lo stato avrebbe fatto investimenti “ad alto moltiplicatore” per far ripartire la crescita e che “mettendo i soldi in tasca” ai cittadini il pil sarebbe tornato a salire?

   

Il presupposto di fondo di questa impostazione è che il moltiplicatore fiscale sia molto elevato e cioè che un aumento della spesa pari a uno produce una crescita del pil superiore a uno. Questa impostazione però viene smentita dagli stessi dati del quadro macroeconomico del Mef. Secondo gli stessi dati del governo, la manovra avrà un effetto espansiva dello 0,4 per cento (in riduzione dello 0,2 per cento rispetto alla versione precedente, quella con deficit al 2,4 per cento). Di questo impatto positivo, circa la metà – lo 0,2 per cento – è dovuta alla disattivazione delle clausole Iva. Un altro 0,2 per cento di crescita è invece prodotto dalle due misure cardine della manovra, quelle che hanno prodotto deficit e spread: reddito di cittadinanza e quota 100. Il problema è che queste due misure, sforbiciate, dopo l’accordo con la Commissione europea, valgono circa lo 0,6 per cento del pil. Questo vuol dire, senza un calcolo matematico troppo impegnativo, che secondo il governo il moltiplicatore non è affatto superiore a 1, ma vale 0,3: per ogni euro in più speso in reddito di cittadinanza e quota cento il pil aumenta di 30 centesimi. Non un particolare affare, anche perché questi soldi vanno presi in prestito e proprio l’atteggiamento sconsiderato della maggioranza gialloverde – tra feste sul balcone e spavalderie contro l’euro – ha fatto aumentare il costo della raccolta. Proprio ieri l’Istat ha certificato che nel terzo trimestre del 2018 la spesa per interessi, a causa dell’aumento dello spread, è salita di circa 1,7 miliardi rispetto al terzo trimestre 2017. E devono arrivare i dati dell’ultimo trimestre 2018, quando lo spread è schizzato oltre i 300 punti dopo la festa sul balcone. Secondo le stesse stime del governo la spesa per interessi nel 2019 salirà al 3,7 per cento e aumenterà ancora negli anni successivi fino ad arrivare al 4 per cento. E’ sui tassi d’interesse – e sulle tasse – che si è visto l’effetto moltiplicativo del governo gialloverde.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali