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Tranquilli: FaceApp non fa nulla di più pericoloso di quel che fa Facebook

Eugenio Cau

Inutile dare la colpa ai russi o alle grandi corporation americane: se i nostri dati non sono al sicuro è colpa del modello di business che muove tutta la rete 

Milano. Nelle chat d’Italia – e del mondo – è tutto uno scambiarsi di foto modificate con FaceApp, una app simpatica che invecchia i volti nelle fotografie. L’effetto è piuttosto realistico – FaceApp ti fa raggrinzire la pelle del collo, aggiunge rughe e macchie, dirada i capelli – e da giorni non si vede altro che foto di amici, parenti e personaggi più o meno famosi nella loro versione tra trenta o quaranta anni. Pochi giorni dopo il successo di FaceApp, ineludibile, è arrivato l’allarme privacy: occhio, la app vi ruba i dati/le foto/le informazioni personali! A peggiorare la situazione c’è il fatto che la app è sviluppata da un’azienda di San Pietroburgo, e a isteria si è aggiunta isteria. Negli Stati Uniti il Partito democratico ha chiesto alle campagne elettorali dei suoi candidati alle primarie di cancellare la app, che vai a sapere cosa combinano i russi.

 

Ora, e rapidamente: al contrario di quello che si è detto qualche giorno fa, FaceApp non è un pericolo per la privacy più grande di milioni di altre app che ci sono là fuori. Quando si seleziona una foto per sottoporla al processo di invecchiamento, FaceApp la carica sul suo server (che si trova negli Stati Uniti), e nella sua privacy policy si arroga il diritto di usare la (vostra) foto caricata come meglio ritiene: distribuirla ad altri, condividerla con partner commerciali, farci una mostra d’arte, tutto. E a voi non spetta niente. Sembra un comportamento inammissibile, ma ecco: Facebook fa uguale. Quando caricate una foto su Facebook, concedete a Mark Zuckerberg esattamente gli stessi diritti, e l’unico modo per riprenderveli è cancellare la foto. Vale anche per Instagram. E non cominciamo nemmeno a parlare di TikTok, la app che tutti i vostri figli in questo momento stanno usando, e che è basata in Cina.

 

E dunque sì, FaceApp è un problema per la privacy, ma un problema molto relativo amplificato da un pizzico di nevrosi anti russa – e un problema che impallidisce se se paragonato alle violazioni di Facebook, Google o TikTok.

 

Isterie come quella di FaceApp sono periodiche. Ricordate la “10 Years Challenge” di qualche mese fa? Su Facebook tutti cominciarono a postare proprie foto del 2009 e a fare il paragone con foto recenti (l’invecchiamento tira). Anche in quel caso partì l’allarme privacy (non confermato): occhio, Facebook vuole usare le foto per addestrare la propria intelligenza artificiale! Siete cavie di un esperimento! Ecco, la cultura di internet ormai si nutre di allarmi di questo tipo, di scandali, isterie, casi controversi. E’ come se fosse scontato che internet è una foresta oscura. Come ti giri, ci sono un russo malintenzionato o una grossa corporation pronti ad appropriarsi dei tuoi dati, delle tue foto, della tua vita. Quasi sempre non ci facciamo caso. Le app per aggiungere le rughe ai ritratti sono divertenti, Facebook è comodo, Gmail è uno strumento di lavoro fondamentale, perché preoccuparsi se in cambio qualche azienda accumula troppi dati su di noi? Poi ogni tanto arrivano gli scandali come Cambridge Analytica e tutti ci ricordiamo che dovremmo prestare attenzione alle nostre informazioni personali – fino alla prossima app vanitosa.

 

FaceApp è pensata per solleticare la vanità degli utenti, per questo è irresistibile. Ma app simili (ce ne sono milioni) dovrebbero essere dei divertimenti innocenti, non trappole per raccogliere dati. Se sono delle trappole – e se internet è una foresta buia e piena di pericoli – è perché il modello di business che muove tutta la rete incentiva la sorveglianza e la razzia di informazioni sulla nostra identità, i nostri rapporti sociali, le nostre abitudini, le nostre famiglie, le nostre fotografie. Dovremmo cominciare a farci caso.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.