Un portafoglio parallelo: breve storia delle monete alternative
Prima di Libra e dell’ipotesi dei minibot: la lira-caramella, l’esperimento svizzero, il disastro argentino. Le monete alternative populiste spiegate con “Il mago di Oz”
L’idea dei minibot e l’allarme della Banca d’Italia sugli “euro scritturali” creati autonomamente. Facebook che lancia Libra e la febbre ancora alta per un Bitcoin che a giugno, toccando i 9.000 dollari per unità per la prima volta dal marzo del 2018, ha consentito grossi guadagni a chi ci aveva puntato all’inizio dell’anno (ma una ancor più grande perdita per chi nel dicembre del 2017 li aveva presi a 20.000 dollari l’uno). La stampa e soprattutto il web si sono affannati a spiegare in queste settimane la differenza tra monete “parallele”, “complementari”, “alternative”, a contare che sparse sul pianeta ve ne sarebbero ben cinquemila, e a elencare una lista di precedenti tra i quali, si dice, vi sarebbero ben undici monete regionali già impiantate nel nostro paese, dal Valdex al Sardex. Ma all’alba di tutto questo c’erano le caramelle. Una straordinaria moneta parallela che la fertile fantasia dei negozianti italici inventò a inizio anni Settanta, per risolvere una grave crisi di spiccioli. Dolci al sapore, nei clienti che se le vedevano rifilare come resto creavano però una certa amarezza.
In effetti la lira-caramella, come qualcuno la ribattezzò, aveva due problemi. Primo: i negozianti le fissavano un valore arbitrario, e sempre al ribasso. Secondo: ovviamente, non la rivolevano indietro. Fu così che, dal dicembre 1975, le banche italiane iniziarono a emettere i miniassegni. Assomigliavano anch’essi ai soldi del Monopoli, secondo la definizione che i giovani di Confindustria hanno dato dei minibot, ma avevano un valore se non altro stabilito. Da 50, 100, 150, 200, 250, 300 e 350 lire. Benché si trattasse in realtà di veri e propri assegni circolari, anch’essi avevano però il problema di essere in genere rifiutati dai negozianti. L’unica cosa da fare era in realtà portarli alle banche emittenti, e il Partito Radicale come protesta iniziò infatti a raccoglierli per presentarli agli istituti a carriolate: ma gli stessi istituti non li rivolevano perché in gran parte girando come spicci si deterioravano. La situazione era paradossale, perché quella grave scarsità di moneta spicciola creava una curiosa sacca deflazionaria in una economia che invece all’epoca veleggiava sulla inflazione a due cifre. Il problema era tecnico più che economico, e infatti nel 1978 l’Istituto poligrafico e la Zecca di Stato si misero a coniare in quantità. Miniassegni e lira-caramella rimasero solo un ricordo: che però illustra bene alcune dei problemi di base di questo tipo di valute.
In realtà, la storia degli strumenti di pagamento non è statica. All’origine la moneta era infatti autogestita. Una semplice quantità di metallo, accettata da due parti che non avevano da barattare nient’altro di comune interesse. Si litigava però se il peso fosse giusto, e lo stato iniziò a intervenire come garante. “Garantisco che il peso è proprio questo”, voleva dire il conio. Poi lo stato si arrogò l’esclusiva dell’emissione. L’inflazione nacque quando iniziò a imporre valori nominali superiori al valore intrinseco del metallo. Già allora, politici populisti come Caligola o Nerone lo facevano “per punire i ricchi”.
Al tempo della regina Elisabetta un banchiere di nome Thomas Gresham formulò quel “moneta cattiva scaccia la buona” che è considerata la più antica legge economica. Se in un sistema circolano due monete diverse entrambe a corso legale, spiega, se una delle due vale di più, allora la gente cercherà di pagare con quella che vale di meno. Quella che vale di più è invece tesaurizzata, fino a farla sparire dalla circolazione. “Sono a favore dei minibot a condizione che servano solo a pagarci lo stipendio a Di Maio e Borghi” non è solo una battuta. E’ una esemplificazione dell’effetto Legge di Gresham che comporta ogni introduzione di altre monete accanto a quella principale.
Lo stesso ministro Tria ha osservato che oltre a essere illegali e ad aumentare il debito, i minibot porterebbero a uscire dall’euro. E’ stato risposto che di monete parallele in Europa ne funzionano già senza troppi problemi in quantità. Trenta solo in Francia, abbiamo già ricordato le undici italiane, sono poi particolarmente citate il Circuit de Comerç Social di Barcellona e, fuori dell’Eurozona, il Wir svizzero, il Bristol pound inglese e l’Ora sudafricano. Hanno però in comune di nascere spontaneamente da iniziative locali, e di avere un carattere “comunitario”, cioè le usa volontariamente chi aderisce a quel circuito, e si impegna dunque anche ad accettarle. Che è poi anche la logica delle recenti criptomonete elettroniche: bitcoin e i suoi fratelli, 736 criptovalute circolanti nel mondo per 403 miliardi di dollari di controvalore complessivo: il 35 per cento rappresentato dal bitcoin. Queste le cifre rese note in occasione di quel vertice dei ministri dell’Economia e dei governatori delle Banche centrali del G20 di Buenos Aires del marzo 2018, nella cui agenda il tema era stato inserito. La perplessità degli stati è dimostrata dal fatto che in Italia la magistratura sul bitcoin indaga come un possibile fenomeno criminale, mentre alla Agenzia delle entrate hanno chiesto di inserirli nella dichiarazione dei redditi.
Non è però lo stato che impone di accettare queste valute con corso forzoso. Quindi per l’euro alla fine questo tipo di valute non dovrebbe creare problemi.
In Italia, la differenza tra un possibile approccio dall’alto e uno dal basso è esemplificata dal raffronto tra il Napo e il Sardex. Il Napo, infatti, fu fatto stampare nel 2012 a Napoli dal sindaco De Magistris. Ma gli stessi napoletani che avevano votato De Magistris sindaco in forma plebiscitaria, lo boicottarono come emissore di strumenti di pagamento. Il Sardex è stato lanciato nel 2010 da cinque giovani imprenditori sardi, che ispirandosi in parte al Wir svizzero hanno creato un Circuito di Credito commerciale in cui sono le stesse aziende a farsi credito a vicenda. In una valuta alternativa e digitale perché “è più facilmente tracciabile rispetto alle banconote”. Nel 2016 le imprese iscritte erano già arrivate a 3.500, e appunto anche altre regioni hanno provato a riprodurlo. E’ un modello che funziona. Ma appunto perché nasce dal basso e non è imposto.
Quando invece un sistema di moneta parallela viene proposto dall’alto, al fondo c’è sempre un disegno politico inflazionista, che punta alla distruzione della moneta in quanto vista come strumento di oppressione. Infatti, se i populisti di oggi ce l’hanno con l’euro, il partito americano che tra il 1891 e il 1908 fu il primo della storia ad autodefinirsi “populista” nacque dalla rabbia dei contadini del West indebitati con le banche dell’est per via di una tremenda deflazione. Per riportare l’economia in movimento, i populisti chiedevano di coniare anche monete d’argento oltre che d’oro, accusando i ricchi capitalisti di voler “crocifiggere i poveri su una croce d’oro”, secondo il famoso slogan del leader populista e poi sfortunato candidato democratico alla presidenza William Jennings Bryan. Un sistema bimetallico avrebbe creato una valuta d’argento parallela a quella d’oro: con rischi di legge di Gresham di cui però ai populists non importava niente. Alla fine, di quella battaglia non restò niente, se non una deliziosa metafora favolistica intitolata “Il mago di Oz”. Dorothy, simbolo dei valori tradizionali americani, si perde appunto quando segue la strada di mattoni d’oro, e torna invece a casa grazie alle scarpette d’argento. L’uomo di latta sono gli operai, lo spaventapasseri i contadini, il leone codardo Bryan, le streghe cattive i capitalisti, e il Mago di Oz (= ounce of gold, oncia d’oro) l’inetto presidente del Partito repubblicano Marcus Alonzo Hanna.
Ma nel momento della protesta populista del Mago di Oz in realtà il principale strumento di pagamento era già diventata la banconota: in principio proposta dalla Banca d’Inghilterra a fine ’600 come strumento di pagamento sempre convertibile in moneta metallica, poi dalla Rivoluzione Francese e da Napoleone imposta come corso forzoso, con quei famigerati “assegnati” che infatti crearono protesta e scontento. A inizio del ’900 in molti paesi le banconote facevano addirittura aggio sull’oro, nel senso che la gente le preferiva alle monete: accadde anche alla lira, quando a Palazzo Chigi c’era Giolitti. Poi la Prima guerra mondiale impose di nuovo il corso forzoso, e il tentativo di tornare alla convertibilità fu frustrato dalla crisi del ’29, dopo la quale in effetti gli esperimenti di valuta alternativa imperversarono. Un esempio ricordato di recente è stato il Mefo-Bill della Germania nazista. Ma nacque allora anche il Wir svizzero, collegato alla banca omonima e a una cooperativa. Risale al 1934, quattro anni dopo la morte del pensatore anarchico Silvio Gesell, dal quale spesso si fa discendere l’idea. Gesell sosteneva fra l’altro che a creare crisi e mancanza di liquidità è il fatto che il denaro è una “merce indeperibile”. Pensava dunque che bisogna farlo “scadere” per farlo circolare. Per questo fino al 1948 i conti Wir perdevano valore se non utilizzati. Poi il sistema è stato modificato, ma sempre per incentivare a spendere, la Wir non dà interessi. Avete presente che il reddito di cittadinanza non utilizzato durante il mese non potrà più essere utilizzato? Avete sentito la proposta di Salvini di tassare i soldi nelle cassette di sicurezza? Idee che hanno un passato.
Con gli Accordi di Bretton Woods, nel 1994 fu creato un nuovo sistema in cui tutte le valute potevano essere convertite in dollari Usa, e i dollari Usa in oro. Ma saltò nel 1971 su iniziativa unilaterale di Richard Nixon, alle prese con i costi della guerra del Vietnam. Nel sistema di cambi fluttuanti che si è da allora determinato le banconote sono ormai slegate da ogni riferimento a una ricchezza materiale, e basate solo sulla fiducia che le autorità emittenti ispirano. Quando la fiducia in una valuta crolla, a quel punto gli stessi cittadini di quel paese si affidano a valute straniere: lo abbiamo visto nei casi di iper-inflazione nello Zimbabwe di Robert Mugabe e nel Venezuela di Hugo Chávez e Nicolás Maduro. In quel caso, sono gli stessi governi a ridurre la propria moneta a valuta “parallela”.
Una cosa però a cui spesso non si pensa è che in realtà la stessa diffusione di strumenti di pagamento virtuale come le carte di credito o i pagobancomat ha in realtà creato una straordinaria forma di moneta alternativa di successo. La gran parte delle transazioni si fanno ormai con numeri che mai si trasformano in biglietti o moneta, e restano solo cifre nei terminali.
L’effetto di creazione di liquidità di carte di credito e bancomat va ricordato per meglio inquadrare uno dei casi di moneta alternativa più ricordati in queste settimane: quello dei patacones, emessi dalla provincia di Buenos Aires tra 2001 e 2002. Lo scenario era infatti quello del peso che per legge con la presidenza Menem era stato parificato al dollaro: un escamotage che aveva risolto gravissimi problemi di inflazione, e creato anche consenso sociale per l’opportunità di importare beni a prezzi convenienti. Un inconveniente era però che così si deprimevano le esportazioni: stessa lamentela che si fa all’euro. Un altro inconveniente era che la parità doveva essere sostenuta sui mercati finanziari: con risorse che furono ottenute semplicemente privatizzando tutto il privatizzabile.
Poiché la legge creava una briglia all’emissione simile a quella che dà oggi l’euro, esattamente in stile Borghi varie autorità provinciali iniziarono a finanziarsi emettendo buoni. Il patacón non fu che il più emblematico: soprattutto per quel nome che in Italia sembra plasticamente esprimere un’idea di fregatura. A ogni modo, un effetto fu di rilanciare la speculazione contro il peso, in un momento in cui finite le privatizzazioni le risorse per combatterla erano ormai insufficienti. Già ministro di Menem inventore della dollarizzazione del peso, richiamato all’Economia da Fernando de la Rúa, Domingo Cavallo ne pensò un’altra: il cosiddetto corralito. In realtà, non è vero quel che spesso si ripete, che agli argentini era vietato utilizzare i propri risparmi. Il limite era in realtà al semplice prelievo di contanti: ma tramite carta di credito e pagobancomat si potevano invece fare tutte le transazioni che si volevano. Secondo la famosa formula alla base della politica monetaria MV = PQ, l’idea era che siccome la massa monetaria M non poteva essere aumentata per evitare un aumento dei prezzi P, la quantità dei beni scambiata Q avrebbe potuto crescere semplicemente elevando la velocità di circolazione V con un maggior uso di carte e bancomat.
Il margine in teoria c’era, dal momento che l’uso di denaro elettronico in Argentina era basso, rispetto alla media dei pesi sviluppati. Il problema era che gli argentini il denaro elettronico non lo volevano usare, proprio perché nella loro economia c’era una componente maggiore di settore informale. Ne seguì una rivolta, in cui il presidente dovette scappare in elicottero dal tetto della Casa Rosada. Comunque, con l’abbandono della parità col dollaro il valore del denaro in mano agli argentini cadde del 75 per cento, e anche i bond alternativi subirono crolli del valore facciale analoghi. La crisi argentina del 2001-02 è ancora emblematica. E l’Argentina aveva comunque materie prime strategiche che a un certo punto consentirono di ammortizzare il colpo semplicemente tornando alla natura: addirittura, la grande agroindustria si mise a fare pagamenti in cereali.
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