Le priorità che deve avere la diplomazia italiana. Spunti
Dal Mediterraneo all'Unione Europea alla Cina, il successo della politica estera passa da una Farnesina sempre più simile al Dipartimento di stato americano
Sarebbe eccessivo caricare il governo Conte-due di speranze e aspettative troppo alte in politica estera: al di là delle perplessità che nei giorni scorsi sono state fatte sul nuovo ministro Luigi Di Maio – che dovrà invece essere giudicato solo alla prova dei fatti e della squadra che sta mettendo in piedi – la nostra azione diplomatica dovrebbe partire innanzitutto dalla presa d’atto che il ruolo dell’Italia è giocoforza limitato e che il nostro “peso specifico” è quello di una media potenza. Tuttavia, è possibile delineare alcuni elementi e dinamiche che ci consentono di guardare a questa nuova esperienza con rinnovato ottimismo profittando anche dell’attuale congiuntura europea che ci è particolarmente favorevole con il declino della Gran Bretagna, i rallentamenti della Germania, lo stop ai sovranismi sancito dalle ultime elezioni europee e da quelle più recenti in Sassonia e Brandeburgo. Nell’appena concluso seminario Ambrosetti a Cernobbio la constatazione condivisa è stata: l’Italia è tornata in Europa, dobbiamo migliorare l’Unione europea lavorando all’interno di essa.
Delineare le priorità della politica estera nazionale non è difficile: basta guardare dove l’Italia è collocata geograficamente. Mediterraneo e Balcani sono il nostro “cortile di casa” allungato al grande medio oriente fino all’Iran, all’Iraq e ai paesi del Golfo, dove si deve proiettare la nostra geopolitica e impostare qualche iniziativa internazionale a favore della pace. Questo ruolo di leadership regionale, a cui possiamo ambire, deve tuttavia rimanere nella cornice più ampia dell’Unione europea, della Nato e delle relazioni transatlantiche. Per quanto riguarda l’Ue, anche grazie alla favorevole congiuntura che ci ha portato a conquistare pedine “di peso” a Bruxelles, abbiamo davanti una grande occasione per proporre la riforma del Patto di Stabilità e del Trattato di Dublino. Inoltre, c’è la questione urgentissima della Brexit, sulla quale il nostro governo non può rimanere inerte in ragione degli interessi commerciali (c’è un surplus di quasi 18 miliardi di euro da difendere) e gli oltre 700 mila residenti italiani in Regno Unito che vanno tutelati.
Non andranno certo trascurate le regioni più lontane. In aree come le Americhe e l’Australia, in virtù della prossimità culturale e della massiccia presenza di cittadini di origine italiana, potremo continuare a dire la nostra. Dovremmo poi cercare di agire da facilitatori nel percorso di mediazione con paesi in cui abbiamo importanti interessi da difendere, come l’Iran. Anche se, non giriamoci intorno, il vero “elefante nella stanza” è la Cina. Pechino è un partner fondamentale con cui non dobbiamo avere paura di fare “affari” che siano funzionali ai nostri interessi economici. I nostri porti, come quello di Trieste, potrebbero trarre molti benefici dagli accordi siglati con la Cina per farne i punti di approdo delle merci in arrivo dall’oriente. Molto diverso è invece l’ambito della cooperazione con la Cina in settori strategici, quali difesa e telecomunicazioni: in questo caso non possiamo agire da soli, ma l’Ue deve esprimersi con una voce sola. Penso che la nomina a capo di gabinetto di Ettore Sequi, ambasciatore a Pechino, sia un’ottima scelta che va nella direzione giusta per cogliere al meglio le opportunità fornite dalla Nuova Via della Seta e nello stesso tempo rassicurare i nostri partner europei ed atlantici.
Una parola, infine, sulla prima proposta messa sul tavolo da Di Maio, ovvero l’intenzione di spostare le politiche commerciali e la promozione dell’export e degli investimenti dal Mise alla Farnesina. Se condotta bene, credo che tale operazione – già tentata in passato ma mai andata in porto per via di numerose resistenze – vada nella direzione giusta, consentendo un raccordo più stretto tra l’Istituto per il commercio estero e la nostra rete di ambasciate e agevolando la nostra penetrazione commerciale nei mercati esteri. Potrebbe essere il primo grande successo del nuovo ministro che si conquisterebbe il favore delle industrie esportatrici e dei nostri diplomatici, ormai tutti sensibili alle priorità economiche oltre che politiche della loro attività.
In conclusione, credo che il rilancio della nostra politica estera passi anche da un rinnovato ruolo politico – e non più quasi solamente di supporto tecnico come accaduto negli ultimi tempi– da parte del ministero. Idealmente, vorrei che la Farnesina potesse giocare un ruolo simile a quello del Dipartimento di stato americano. Si tratta forse di chiedere troppo, ma sarebbe il modo migliore per valorizzare al meglio le grandi competenze che la nostra rete diplomatica può vantare e che il nuovo ministro degli Esteri potrà fare sue con la grande intelligenza e sensibilità che gli vengono riconosciute.
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