L'inizio della fine
Agli Europei del 1988 l’Urss perde in finale contro l’Olanda. Comincia la diaspora dei giocatori sovietici, la Juve prende Zavarov per sostituire Platini
Di lì a poco, ha inizio il 1988, l’anno che avrebbe polverizzato ogni certezza del calcio sovietico. E dei tifosi della Juventus. All’inizio della stagione, la novità più rilevante in casa Dinamo sembra l’arrivo di Oleg Protasov, capocannoniere in campionato con la maglia del Dnepr e nuovo faro dell’attacco per la Sbornaja. Ma quel campionato non passerà alla storia per gli arrivi, bensì per le partenze: sarà quello della diaspora, del “si salvi chi può”, del fuggi fuggi generale verso tornei più ricchi.
“Un cambiamento epocale”
Ad aprire le gabbie è Ligaciov, il numero due del PCUS. “Il nostro calcio – annuncia – è alla vigilia di un cambiamento epocale”. Non specifica che la metamorfosi lo priverà della dignità di scuola calcistica con le proprie tradizioni e le proprie eccellenze, trasformandolo in uno squallido mercato all’ingrosso, dove tutto è in vendita a prezzo di saldo. L’annuncio di Ligaciov assume spessore in poche settimane: lascia l’Unione sovietica un patrimonio del calcio nazionale, il “Meritevole maestro” Oleg Blochin, primatista di presenze e reti in Nazionale; a trentasei anni suonati si accasa al Vorwärts Steyr, oscura formazione neopromossa in Bundesliga austriaca. È il premio di fine carriera per un campione senza eguali, o il segno che le cose stanno cambiando veramente? Poco dopo viene varata una norma rivoluzionaria, che sembra fatta su misura per il nostro Sasha: ogni calciatore sovietico entrato nel ventottesimo anno di età, se ufficialmente richiesto all’estero, può ottenere il trasferimento. Lui festeggia il ventisettesimo compleanno giusto il 21 aprile, a ridosso della sosta del campionato prevista per consentire alla Nazionale di disputare gli Europei, e dall’indomani sarebbe libero di trovarsi un ingaggio in Occidente. Sarebbe, appunto, perché a gestire l’esportazione dei futbolisty saranno il ministero dello Sport e i rispettivi club. Ormai i burocrati di Partito hanno capito l’aria che tira: i calciatori sovietici rappresentano un patrimonio, e tanto vale trarne il massimo profitto prima che la liberalizzazione dell’economia li lasci padroni del proprio destino.
La vetrina dell’Europeo
Gli Europei che saranno disputati in Germania Ovest nel giugno del fatidico 1988 si profilano come un’enorme vetrina: Sasha è chiamato a mettersi in mostra, tanto più che si mormora ci sia un interessamento nei suoi confronti da parte della Juventus, alla disperata ricerca d’un erede che non faccia rimpiangere troppo Michel Platini. Il successore, l’onesto mestierante Marino Magrin, si è rivelato non all’altezza del duro compito, e anche l’ultimo grande acquisto della Vecchia Signora, Ian Rush, bomber gallese che Oltremanica ha passato la quota dei 200 gol, a Torino si è rivelato una delusione. Ormai a casa Zavarov si sogna a occhi aperti. Sasha e la signora Olga, nella speranza di propiziare gli eventi, sottomettono il figliolo all’ascolto a tutto volume delle hit che, ai loro occhi, rappresentano la quintessenza del Bel Paese: Felicità di Al Bano e Romina, Sarà perché ti amo e, naturalmente, la superhit di Toto Cutugno L’Italiano, una lingua che nonostante tutto gli Zavarov non impareranno mai. La motivazione dei sovietici a prender parte al torneo continentale rasenta il parossismo: nelle qualificazioni fanno il vuoto, e chiudono il proprio girone al primo posto da imbattuti, mettendo in fila i compagni della Germania Est, una Francia giunta al termine d’un ciclo felice, l’Islanda e la Norvegia. La fase finale della manifestazione, al di là di una Cortina di ferro più sottile che mai, vede ai nastri di partenza otto squadre divise in due gruppi; passano prima e seconda, e vanno direttamente in semifinale.
Il Partito ha capito che i calciatori sono un patrimonio, meglio trarne il massimo profitto gestendo le loro cessioni
La Sbornaja è inserita nello stesso girone dell’Inghilterra, dell’Irlanda e degli Oranje olandesi, che si riaffacciano sulla ribalta internazionale grazie a una nuova generazione di fuoriclasse; l’Italia guidata da Azeglio Vicini è nell’altro gruppo con i padroni di casa, la Spagna e la Danimarca. Lobanovsky, scottato dall’esperienza del Mondiale messicano, mette le mani avanti: “Non faremo vedere bel gioco. Questa volta vogliamo badare alla concretezza”. Detto, fatto: nel primo incontro, davanti agli oltre 50.000 spettatori di Colonia, l’Unione sovietica se la vede con la favorita Olanda di Ronald Koeman e Ruud Gullit, Rijkaard e Johnny Bosman. Marco Van Basten entrerà solo dopo un’ora di gioco, quando ormai l’URSS è passata in vantaggio grazie a un sinistro a incrociare di Rats, e non riuscirà a lasciare il segno: Dasaev, in completo azzurro, para tutto, compiendo un paio di autentici miracoli.
Sasha, finalmente, gioca fino al 90’; Lobanovsky, in completo grigio impreziosito dall’emblema di Stato ricamato sul taschino, identico a quello che i giocatori portano cucito all’altezza del cuore, lo richiama in panchina solo per perdere qualche secondo a ridosso dei tre fischi. Tre giorni dopo, a Hannover, l’URSS affronta l’Irlanda allenata da Jackie Charlton, una formazione priva di stelle ma vivace e da non prendere sottogamba, ché nel primo incontro s’è liberata dell’Inghilterra. Questa volta tocca inseguire: i Verdi attaccano a testa bassa, passano per primi con un gol in sforbiciata aerea di Ronnie Whelan, e vanno più volte vicini all’infilare nuovamente Dasaev, protagonista d’un’altra prova coraggiosa. A salvare la baracca è il giovane Protasov, che a un quarto d’ora dalla fine si accentra a pochi passi dalla linea di fondo e beffa il portiere irlandese Bonner con un misuratissimo tunnel. Per avere la certezza di passare il turno, serve battere l’Inghilterra, fanalino di coda fermo a zero punti. La partita contro gli appannati “maestri” si gioca al Waldstadon di Francoforte, e per l’occasione l’URSS scende in campo per la prima volta con la prima divisa.
Non si tratta però della solita casacca rossa in colore pieno, bensì di una traslucida creazione a fantasie geometriche (foto sotto) tono-su-tono che creano un bizzarro contrasto con la tradizionale sigla CCCP: i tempi stanno cambiando, e con quale spregiudicatezza lo facciano è chiaro anche dall’abbigliamento dei calciatori, ormai proiettato verso i pazzi anni Novanta. Sasha è ancora a secco di gol e ha un bisogno disperato di mettersi in luce, così parte a testa bassa. La partita è appena cominciata quando tenta una serpentina per vie centrali; viene stoppato di forza, scivola a terra e l’Inghilterra riparte, ma Aleinikov ruba palla prendendo in controtempo gli Albionici, sfrutta il varco, entra in area con due tocchi e beffa Woods con una pennellata mancina. Sugli spalti garriscono un pugno di bandiere rosse con la falce e martello, ripetutamente inquadrate dalla regia come si fa con qualcosa che presto sfarinerà nel ricordo; i tifosi sovietici stanno per gioire nuovamente quando Protasov scende palla al piede sulla corsia sinistra e scavalca il portiere con una rasoiata che, però, si spegne mestamente contro la base del palo. L’Inghilterra non ci sta a farsi umiliare, e al quarto d’ora una punizione calciata da Hoddle nel cuore dell’area vede svettare più alto di tutti Tony Adams: girata di testa verso il secondo palo, e gol del pareggio.
Poco dopo, Steven manca clamorosamente il gol che regalerebbe ai Leoni il vantaggio, poi l’URSS riprende le redini del gioco. Non è ancora scoccata la mezz’ora di una partita vivacissima, quando un giovane e biondissimo centrocampista della Dinamo Kiev, Mikhailichenko, triangola in area con Protasov, schiacciando in rete di testa il cross a mezz’altezza con cui questi gli restituisce il pallone. È il 2-1, e Sasha si dice che gli servirebbe un colpo a effetto del genere, un gesto memorabile che lo imprima in maniera indelebile nell’immaginario degli spettatori. Non gli riesce niente del genere, però, e l’onore di chiudere il match tocca a un banale comprimario: una scarpata in orizzontale di Rats a ridosso dell’area piccola basta a confondere la difesa inglese, e sul cuoio cala per primo Viktor Pasulko, subentrato a Belanov. La vittoria vale la semifinale, ma Sasha non può ritenersi soddisfatto.
In mostra contro gli Azzurri
Ora, però, sulla strada della Sbornaja ci sono nientemeno che gli Azzurri. Quale migliore occasione per impressionare la dirigenza della Juventus e staccare il biglietto per il “Campionato più bello del mondo”? Azeglio Vicini si è portato in Germania una ristretta selezione di senatori sopravvissuti al glorioso ciclo di Bearzot: lo “Zio” Bergomi, il discontinuo Ancelotti, centrocampista tutto fosforo dalle ginocchia di vetro, e “Spillo” Altobelli, autore d’un gol decisivo nel girone iniziale, che si rivelerà anche la sua ultima segnatura in azzurro. Il bonario ma permaloso mister romagnolo ha confermato anche i giovani aggregati a sorpresa dal suo predecessore alla spedizione messicana, l’interditore “Rambo” De Napoli e Luca Vialli. Hanno ormai una cospicua esperienza in Nazionale anche Franco Baresi e Riccardo Ferri, mentre il resto della squadra è composto da ragazzi che si sono messi in luce con un lungo apprendistato nell’Under 21 diretta sino a un paio d’anni prima dallo stesso Vicini: il portiere Walter Zenga, Paolo Maldini, il “Principe” Giannini, Donadoni e il talentuoso Roberto Mancini, sulla breccia sin da adolescente eppure mai ritenuto indispensabile in azzurro.
È di Sasha l’assist per il secondo gol all’Italia. Non lo sa nessuno, ma quella sarà l’ultima vittoria di rilievo della Nazionale
È la prima versione dell’“Italia più bella di sempre” che si farà ammirare ai Mondiali del 1990, e già ne denuncia il futuro limite: le manca sempre un centesimo per fare una lira. La sfida si gioca in terra di Svevia, in quel Necklarstadion di Stoccarda che gli Azzurri considerano maledetto sin dal l974, quando la Polonia negò loro di procedere nel Mondiale. E la maledizione, puntuale, si ripete: sotto una pioggia incessante, l’Italia macina gioco ma non produce conclusioni decisive, se non un colpo di testa ravvicinato di Giannini sul quale Dasaev respinge in tuffo acrobatico. All’intervallo Vicini lascia negli spogliatoi il “Mancio”, che incassa con la mesta furia dei geni precoci e incompresi, per giocarsi la carta Altobelli, più potente e dunque più adatto a un terreno ormai pesantissimo. Il campo fradicio, in effetti, gioca un ruolo non secondario nei minuti che sbloccano la partita. È appena scoccata l’ora di gioco, quando Gennadi Litovchenko, appena approdato alla Dinamo dal Dnepr insieme a Oleg Protasov, entra in area palla al piede: due tentativi di tackle consecutivi da parte della difesa italiana si risolvono in altrettanti scivoloni grotteschi, e sul secondo l’ucraino va al tiro col sinistro; la sfera rimbalza sul dorso d’un azzurro a terra, Litovchenko la ribatte al volo di destro e infila Zenga sul primo palo.
Come sempre, è questione di punti di vista: per i sovietici è un capolavoro di tecnica da parte d’un giocatore che nasce come centrocampista di quantità. Sfiga nera, dal punto di vista degli italiani, che subiscono uno di quei gol per cui sui campetti si spende volentieri l’espressione “se anche ci riprovi cento volte, non ti riesce più”. Non passano centoventi secondi, che arriva l’occasione tanto agognata da Sasha Zavarov: si lancia in percussione solitaria sulla corsia sinistra, e quando gli Azzurri stanno per chiuderlo in raddoppio, scodella un assist delizioso per Protasov, che si allunga in scivolata e, con un bel pallonetto di sinistro scavalca Zenga: 2-0. Le telecamere inquadrano la sobria esultanza del lungo Oleg, mentre Zavarov è decisamente su di giri. “Avete visto tutti,vero?”, sembra domandare. “L’assist che ci manda in finale l’ho firmato io!”. Tra la foga agonistica e la pioggia che continua a cadere copiosa, nessuno dei due realizza fino a che punto quella rete è destinata a marcare la fine di un’epopea: hanno appena confezionato il gol che vale all’Unione sovietica l’ultima vittoria di rilievo.
Quel gol di Van Basten
La finale vede di nuovo la Sbornaja contro l’Olanda, ma è una di quelle partite che passeranno alla storia liofilizzate in un unico gesto tecnico. In pochi ricordano il superbo colpo di testa a fil di traversa col quale Gullit, la fascia tricolore di capitano al braccio, trafigge Dasaev alla mezz’ora di gioco, né la prodezza di quest’ultimo sulla punizione calciata dallo stesso Ruud, o la straripante agonismo con cui Gullit, ancora lui, argina le iniziative di Sasha, di Aleinikov e di Igor Belanov. Quella che, sino ai primi minuti della ripresa, sembrava indubitabilmente la partita della vita di Ruud Gullit cambia eroe eponimo in pochi istanti: al 54’, infatti, arriva il gol-capolavoro di Marco Van Basten, universalmente ritenuto una delle reti più stupefacenti della storia del calcio. Dieci sono i passi che il “Cigno di Utrecht” muove in accordo coi giri del pallone, crossato da Arnold Mühren verso di lui, in agguato all’estrema periferia dell’area, praticamente a ridosso della linea di fondo campo. Vasili Rats pensa che, da quella posizione impossibile, l’Olandese proverà un controcross, non certo che voglia andare al tiro, invece Van Basten punta il piede sinistro sul terreno e, con grazia irreale, colpisce di destro disegnando una parabola perfetta che scavalca il pugno di Dasaev e plana morbida in rete. Quella prodezza che regala all’Olanda il suo primo titolo internazionale cancella ciò che è venuto prima e, pietosamente, anche quel che segue: un sacrosanto rigore per l’URSS che Belanov si fa parare da Van Breukelen. Non sarà da questi particolari che si giudica un giocatore, ma con questo errore l’ex Pallone d’oro vede scendere ulteriormente le proprie quotazioni, e proprio nel momento in cui bisognerebbe monetizzare il proprio talento.
La Juve dà a Sasha 200 milioni all’anno, ma deve pagarli al governo sovietico che a lui gira
uno stipendio da operaio
Altri sono i giocatori della tramontante Nazionale sovietica che suscitano gli appetiti delle squadre che contano: l’elegante finalizzatore Protasov, l’emergente Mikhailichenko e, per sua fortuna, il nostro Sasha Zavarov. La Fiat, si sa, ha pesanti interessi in Unione sovietica. Così l’avvocato Agnelli e il fido Boniperti hanno tutto l’agio di bruciare la concorrenza: Zavarov, ribattezzato “lo Zar di Lugansk”, diventerà il nuovo numero 10 bianconero in cambio di cinque miliardi di lire. Due andranno alla squadra di provenienza, altrettanti al ministero dello Sport e il restante ad altri organi non meglio specificati del governo sovietico. Ci mangiano in tanti, sul suo ingaggio, e continueranno a mangiare sullo stipendio da duecento milioni annui, che dev’essere corrisposto in Unione sovietica. Ci penseranno loro a girare all’atleta quant’è giusto: Sasha dovrà vivere a Torino con un milione e duecentomila lire al mese, pochi spiccioli in più rispetto a quello che percepiva a Kiev. Un operaio che assembla le Panda a Mirafiori guadagna poco di meno; per la prima e ultima volta nella storia, un qualsiasi impiegato amministrativo della Fiat porta a casa uno stipendio più ricco rispetto al numero 10 della Juventus.
Agnelli e Boniperti bruciano la concorrenza: nell’estate del 1988 Zavarov, lo Zar di Lugansk, diventa il nuovo numero 10 bianconero per cinque miliardi di lire (nella foto Zavarov in maglia bianconera con Rui Barros e Laudrup)
La prima volta su un campo italiano
La sua prima apparizione italiana avviene a Livorno sotto Ferragosto; è ancora tesserato per la Dinamo Kiev, invitata a giocare un quadrangolare estivo cui partecipano anche Bologna e Inter, ma ad accogliere gli ucraini ci sono i dirigenti di mezza serie A e un folto parterre di giornalisti. Le domande ai giocatori della Dinamo, rivestiti per l’occasione con una nuova divisa di rappresentanza firmata da uno sponsor italiano, fioccano numerose e irriverenti. “Che auto guida, Belanov?”. “Una Volga”, risponde mesto Igor. “Non preferirebbe una Ferrari?”. Lui annuisce, spaesato. Per lui s’è mossa l’Atalanta, e arriva a farsi fotografare mentre stringe la mano al suo presidente, ma il Colonnello lo invita a rientrare nei ranghi: il ministero non ha ancora deciso quale sarò la sua sorte. “E lei, Mikhailichenko, quanto guadagna?”. “Settecento rubli”. “Lo sa che in Italia è uno stipendio molto modesto? Non le piacerebbe guadagnare di più?”.
C’è del sadismo, nell’aria, e va in due direzioni. Lobanovsky si smarca fisicamente dalle insistenti attenzioni del patron atalantino e del presidente genoano Spinelli. E quando gli chiedono se l’affare Zavarov sia prossimo a concludersi, il Colonnello sta sul vago. Dice che non dipende da lui, ma dal ministero dello Sport. In verità le pratiche per Sasha sono già chiuse da una settimana, ma nessuno deve ammetterlo, tanto meno il diretto interessato. “Sono venuto con una valigia piccola”, spiega attraverso l’interprete. “Devo tornare a Kiev”. “E della Juventus cosa sa?”. “Che era una grande squadra”. Gli ripetono la domanda, caso mai ci sia stato un errore di traduzione. Ribadisce la risposta all’imperfetto. È la cruda verità. La Juve è giunta al termine d’un ciclo leggendario, che l’ha portata a essere premiata dalla UEFA come la prima squadra a vincere tutte le competizioni europee. È partito Trapattoni, il condottiero di un decennio felicissimo, e si è sfaldato per ragioni d’età anche il suo gruppo. Non ci sono più Zoff, Gentile, Furino, Paolo Rossi, ed è solo un ricordo lontano la grinta di Marco Tardelli, finito prima all’Inter e poi agli svizzeri del San Gallo. Ha appena appeso le scarpette al chiodo anche Gaetano Scirea. L’unico della generazione dei campioni del mondo ’82 ancora in bianconero è il “Bell’Antonio” Cabrini, all’ultimo anno di contratto; l’altro veterano è Sergio Brio, anche lui ormai attempato. Fra gli epigoni di quella squadra fortissima, i soli a dare qualche garanzia sono il portiere Tacconi, due onesti difensori come Favero e l’esperto Tricella e un paio di giovani nel giro della Nazionale, Gigi De Agostini e Giancarlo Marocchi; il paragone con la Juve del Trap, in ogni caso, è assolutamente impietoso. A riprova di quanto sia difficile rinverdirne i fasti, nella stagione passata, i bianconeri allenati da Rino Marchesi hanno chiuso il torneo con un umiliante sesto posto, segnando la pochezza di 35 reti, il bilancio più povero dell’ultimo ventennio. E dire che avevano riposto le proprie aspettative su Ian Rush, l’uomo annunciato come “l’attaccante più forte del mondo”. Il gallese, però, ha deluso in maniera cocente, facendosi notare soprattutto per i ritardi agli allenamenti e le conseguenti multe; se n’è andato nel cuore dell’estate presentando un certificato medico che lo voleva afflitto da varicella, un’uscita di scena beffarda, tanto più che appena tornato ai suoi Reds riprenderà a segnare con implacabile regolarità.
Un po’ di imbarazzo
Eppure la Juve è sempre la Juve, la squadra degli Agnelli, la più tifata d’Italia, e parlarne come di una squadra che era grande suona irriverente. Per questo a Livorno cala un attimo d’imbarazzato silenzio, prima che un cronista più intraprendente degli altri trovi la prontezza di rivolgere a Sasha la madre di tutte le domande: “Nel caso l’affare vada in porto, Zavarov, pensa di poter prendere degnamente il posto che fu di Platini?”. Sasha sgrana gli occhi azzurri, sorride modesto. “Lui era un grandissimo giocatore. Io non lo sono. Forse lo diventerò”. Lobanovsky sorride sornione. L’obiettivo era quello di confondere le acque, e Zavarov ha recitato la sua parte alla perfezione. A Livorno la Dinamo travolge il Bologna per 6-1, poi pareggia con l’Inter, quanto basta per aggiudicarsi il torneo in virtù della differenza reti. I giocatori risalgono sul volo dell’Aeroflot, chi dando l’arrivederci all’Italia e chi salutandola per sempre con un groppo in gola.
I bianconeri sono il lontano ricordo della squadra che vinceva tutto, e si avviano verso una stagione terribile
Tre settimane più tardi, Sasha è a Torino con Olga e il piccolo Alexandr. La casa che gli hanno concesso è la stessa in cui ha vissuto l’anno prima Ian Rush. Per chi crede nello “spirito dei luoghi”, non è un buon presagio. Come auto di rappresentanza gli tocca una Duna. Sarà costantemente affiancato da un interprete, l’insegnante di russo Marco Naldini, e non ha speranze di migliorare le proprie condizioni economiche fintantoché sarà legato dal triennale con la Vecchia Signora, che i famelici dirigenti sovietici hanno trasformato in un accordo-capestro ai suoi danni. Per quell’anno, Boniperti ha affidato la guida tecnica della squadra a una coppia di leggende viventi del calcio nazionale: Dino Zoff vestirà i panni di allenatore, Gaetano Scirea quelli del suo vice. La società ha messo loro a disposizione un pacchetto di stranieri a dir poco improbabile. Il piccoletto Sasha fa quasi la parte del gigante rispetto al portoghese Rui Barros, che nominalmente misura 1 metro e 58 centimetri, ma ai più sembra presentare gli inequivocabili tratti del nanismo; completa il trio lo statuario danese Michael Laudrup, che gioca alla Juve già da un pezzo, eppure continua ad apparire troppo allegro e leggermente svagato, come uno studente all’inizio d’una vacanza che s’annuncia memorabile. Platini, ai suoi tempi, ne aveva sottolineato l’indole poco decisa con una definizione di rara perfidia: “Laudrup è il migliore calciatore del mondo. In allenamento”. Il danese sarà uno dei pochissimi compagni con cui Sasha scoprirà di condividere almeno una passione: nel corso delle trasferte, faranno coppia fissa sul fondo del pullman, facendosi sorprendere più volte a bere vino di straforo. L’altro arrivo di rilievo in casa bianconera è quello dell’esperto Altobelli, reduce da un movimentato divorzio dall’Inter di Trapattoni; “Spillo” è ormai a fine carriera, ma resta un cecchino di rara efficacia, e Zoff confida che Sasha sappia innescarlo a dovere.
L’ottimismo, si sa, non costa nulla; in realtà, mentre l’immane apparato dell’Unione sovietica frana su sé stesso e i negozi occidentali si riempiono di orologi Raketa e jeans dal marchio in cirillico, la Juve si avvia a una delle stagioni più deludenti a memoria di tifoso.
(3. Continua sul Foglio Sportivo di sabato 11 e domenica 12 gennaio)
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