L'impatto del virus sui regimi politici: meglio le democrazie o le dittature?
Non è detto che il mondo che verrà dopo il Coronavirus sarà davvero più “deglobalizzato”. Rimarrà certamente un mondo di Stati sovrani, forse persino più forti di prima
Dinanzi all’incedere del Covid-19 molti osservatori si stanno chiedendo quale sarà l’impatto dell’epidemia sull’economia mondiale, al di là delle ripercussioni immediate di cui si inizia già a vedere la gravità, soprattutto dopo che il governo Conte ha dichiarato l’Italia “zona protetta”. Diverse voci hanno prefigurato l’avvio di un processo di “deglobalizzazione”, più o meno temporaneo, destinato a ridurre gli scambi di merci e capitali. Quasi certamente l’epidemia avrà però anche una serie di implicazioni politiche, e non soltanto perché leader e governi potranno pagare i costi politici della crisi e della sua gestione. Più radicalmente, l’epidemia che sta attraversando il mondo potrebbe infatti innescare un riassetto delle stesse strutture politiche. Forse potrebbe persino rafforzare la “recessione democratica”, quel processo che – secondo alcuni politologi – consiste nell’arresto dell’espansione globale dei regimi liberaldemocratici. O, all’opposto, potrebbe contribuire a erodere le basi di legittimità di regimi autoritari incapaci di affrontare adeguatamente l’emergenza.
Ogni bilancio sulla capacità di gestire la crisi da parte delle diverse forme di regime non può che compiersi solo quando l’emergenza sarà conclusa. In linea generale, i regimi non democratici sembrano però dotati di una capacità decisionale superiore a quella dei sistemi competitivi. Come ha fatto la Cina, possono assumere decisioni drastiche, senza incontrare opposizioni esplicite. E sono in grado di contare su un apparato burocratico e coercitivo, più o meno solido ed efficiente a seconda dei casi. Anche le democrazie possono affrontare l’emergenza con rapidità, ma spesso il processo decisionale è più lento, almeno inizialmente. Le decisioni del governo possono incontrare le critiche delle opposizioni e dell’opinione pubblica. Come abbiamo visto in queste settimane, la comunicazione può inoltre spettacolarizzare l’epidemia, contribuendo a diffondere il panico e comportamenti “irrazionali” da parte dei cittadini. Tutto ciò può infine implicare sovrapposizioni dei provvedimenti o revisioni della linea adottata, con la conseguenza di una certa incoerenza.
Anche i regimi non democratici hanno però un loro rilevante “tallone d’Achille”. Come ha più volte messo in evidenza Amartya Sen, a proposito soprattutto della gestione delle carestie, in un contesto in cui vige un rigido controllo politico del sistema comunicativo, le informazioni su ciò che avviene a livello locale devono attraversare una serie di filtri politici. Si può tentare di occultare informazioni vitali per evitare la diffusione del malcontento nei confronti regime. Inoltre, dato che spesso ogni livello periferico, per evitare accuse di inefficienza, cerca di gestire direttamente le crisi, le informazioni giungono sul tavolo del decisore politico piuttosto tardi, tanto che la situazione nel frattempo può aver assunto proporzioni difficilmente gestibili. E, anche se in misura differente, nel caso dell’epidemia del Coronavirus questa dinamica potrebbe aver riguardato tanto la Cina quanto l’Iran, benché Pechino abbia poi esibito una notevole capacità di controllare la popolazione e di attuare misure straordinarie.
Per quanto possa generare ondate di panico, il profluvio di informazioni sul virus cui abbiamo assistito nelle ultime settimane rappresenta invece una risorsa importante per le democrazie liberali. E’ illusorio pensare che la libertà di informazione possa “correggere” le decisioni sbagliate dei governanti. Ed è senz’altro appropriato anche temere gli effetti negativi prodotti dalla “infodemia”. Ma l’informazione – persino quando le notizie sono all’apparenza contradditorie – rimane un antidoto prezioso contro la diffidenza nei confronti del potere (che potrebbe indurre ciascuno ad aggirare le prescrizioni, ritenute inaffidabili, svantaggiose). E proprio un’informazione veicolata non solo da canali ‘politici’ e dalle istituzioni potrebbe facilitare l’efficacia delle misure di contenimento adottate, la quale dipende soprattutto – come abbiamo compreso – dai comportamenti adottati dai singoli.
Tra informazione e deglobalizzazione.
Non ci sono molte ricerche che affrontino questo aspetto, e – per ovvi motivi – non riguardano le democrazie mature. Alcuni ricercatori hanno però studiato l’impatto delle politiche per il contenimento delle epidemie in contesti africani, mettendo in luce come un fattore cruciale sia proprio la diffusione di informazioni ritenute affidabili mediante canali alternativi rispetto a quelli istituzionali. Uno studio pubblicato recentemente di Tsai, Morse e Blair sostiene per esempio che un programma rivolto a diffondere istruzioni corrette tra la popolazione della Liberia, mediante una rete di volontari, abbia contribuito a contenere l’espansione dell’epidemia di Ebola, tra il 2014 e il 2015, meglio rispetto ad altri casi, superando la diffidenza nei confronti del governo e inducendo i singoli a modificare i loro comportamenti. Non si tratta certo di risultati che possano consentirci di prevedere gli effetti delle politiche di contenimento adottate contro il Covid-19. Ma hanno comunque il merito di sottolineare come la fiducia nelle informazioni possa rivelarsi importante. Da questo punto di vista, anche in un contesto di polarizzazione e di delegittimazione nei confronti della classe politica, gli assetti democratici possono contare su un capitale rilevante (per quanto indebolito rispetto al passato). E le reazioni degli italiani al decreto del 9 marzo – con tutte le implicazioni che comporterà – ci forniranno anche molte indicazioni sulla tenuta di questo residuo capitale di fiducia interpersonale.
Ma è forse proprio sulla credibilità che si giocherà anche la partita della “deglobalizzazione”. Dinanzi a un’epidemia come quella odierna ogni Stato ha – comprensibilmente – la tentazione di minimizzare i rischi dell’epidemia, sia per evitare ondate di panico all’interno, sia per conservare all’estero la reputazione del proprio paese, che altrimenti rischierebbe di pagare conseguenze economiche pesanti. Una prima, pressoché inevitabile, risposta è dunque quella di “chiudere” le frontiere (per quanto possibile) e persino di alterare i dati sugli effettivi contagi. Lo abbiamo visto nelle scorse settimane, ma lo vediamo soprattutto oggi, con l’atteggiamento dei paesi dell’Ue verso un’Italia trasformata in una sorta di enorme “zona rossa”. Una simile dinamica non può che rafforzare la diffidenza reciproca tra gli Stati, e da ciò potrebbe derivare davvero una dinamica di “deglobalizzazione”. Ma la capacità di contenere i contagi dell’epidemia del Covid-19, o quelli di una futura pandemia, dipende in gran parte proprio dalla trasparenza delle informazioni fornite dagli Stati e dall’esistenza di organizzazioni globali che dispongano di dati attendibili, in tempo reale, sulla salute del pianeta. E anche per questo non è detto che il mondo che verrà dopo il Coronavirus sarà davvero più “deglobalizzato”. Rimarrà certamente un mondo di Stati sovrani, forse persino più forti di prima. Ma, dato che le sfide della “sicurezza umana” non cesseranno di essere globali, saranno probabilmente proprio gli stati a rendere il pianeta ancora più globalizzato.
*Direttore dipartimento di Scienze politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore
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