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Questione settentrionale

Gori: "Ma al Pd interessa o no rappresentare i ceti produttivi?"

Giorgio Gori

Il sindaco di Bergamo si rivolge al suo partito: "Siamo attestati solo sulla difesa degli interessi dei pensionati e dei dipendenti pubblici"

Avviso ai naviganti: chi scrive non ha nessuna intenzione di partecipare al nuovo derby Nord vs Sud. Evitate quindi iscrivermi a quella partita. Considero l’arretratezza di gran parte dei territori meridionali un problema per tutto il paese e sono tra quelli che chiedono di usare una parte rilevante del Recovery Fund per colmare il gap infrastrutturale che li caratterizza.

   

Il problema che ho posto – prima su Twitter, poi con un’intervista a Repubblica - è politico. Riguarda la rappresentanza del Nord. Ossia – come ho scritto – la rappresentanza della parte più moderna ed europea del nostro Paese (nessuno si offenda, per favore, è una considerazione oggettiva), in cui si concentrano la produzione del Pil e il contributo alle esportazioni. Non a caso sono partito da Salvini e dalla sua svolta nazionalista, dalla cancellazione della parola “Nord” dalla simbologia della Lega. Attenzione, ho detto: si apre uno spazio, ci interessa provare ad occuparlo?

   

Che il tema esista lo si capisce da molti segnali. L’ultimo l’ha lanciato ieri Giordano Riello, ex presidente dei giovani di Confindustria Veneto: “Nessuna forza politica ha in cima all’agenda i temi che interessano il mondo produttivo delle regioni più industrializzate”, ha detto a La Stampa. “A livello locale, qui in Veneto, abbiamo un buon rapporto con il presidente Zaia (…). Ma i partiti a Roma sono tutti lontanissimi da noi”.

   

Ecco. Quello che pensa Riello lo pensano la gran parte degli imprenditori, degli operai, degli artigiani, dei commercianti, delle partite iva, degli autonomi e dei professionisti che vivono e lavorano nel nostro paese, a partire da quelli del nord. Oltre a Zaia fa eccezione Bonaccini, fanno eccezione alcuni sindaci. Ma la politica nazionale – e il Pd, che è quello che m’interessa – sembrano guardare da un’altra parte.

   

Il punto è la centralità – o non centralità – del lavoro, dell’impresa e della crescita. Salvini che passa il suo tempo a demonizzare l’immigrazione – quando le fabbriche del Nord senza stranieri chiuderebbero domattina – e che persegue il sovranismo antieuropeo, non rappresenta questi lavoratori e questi territori, anzi li danneggia. Di Maio che chiama gli imprenditori “prenditori”, meno che meno. Così come chiunque immagini di tenere in piedi il paese a forza di sussidi, senza preoccuparsi di riaccenderne il motore.

   

L’Italia non cresce da vent’anni, ha una produttività mediamente molto lontana da quelle dei maggiori paesi europei, attrae pochi investimenti dall’estero, innova troppo poco, tende a scivolare verso i segmenti più bassi delle catene del valore e schiacciare qualità del lavoro e salari.

   

Il Pd vuole farsi carico di questi problemi – e dare quindi rappresentanza all’”Italia che lavora e che produce” – o no? Vuole mettere l’aumento della produttività e la crescita dei salari in testa alla propria agenda o pensa – come i suoi alleati 5Stelle – che si possa fare sostanzialmente a meno delle imprese, che a tutto ci pensa lo stato?

   

Si tratta di fare delle scelte. Se ci attestiamo sulla difesa degli interessi dei pensionati e dei dipendenti pubblici – con tutto il rispetto – difficilmente rappresenteremo quelli dei giovani e delle componenti più dinamiche (e meno garantite) della società. Se anziché preoccuparci di dare alle imprese gli strumenti per crescere e creare nuovi (buoni) posti di lavoro consentiamo che si faccia strada l’idea di smantellare una delle cose migliori fatte dai governi a guida Pd – quel Jobs act che ha permesso in pochi anni l’assunzione di un milione di lavoratori a tempo indeterminato - reintroducendo l’art.18 e anzi estendendolo alle imprese con meno di 15 dipendenti, come vorrebbe Landini, facciamo l’opposto dell’interesse non solo degli imprenditori, ma dei lavoratori, e di nuovo, soprattutto dei giovani. E ci giochiamo definitivamente il nord.

   

In tutto questo, si noti, non ho speso una parola contro i recenti provvedimenti del governo a favore del sud. La decontribuzione del 30 per cento voluta dal ministro Provenzano è una scelta forte, che mi permetterei di criticare solo se si fermasse ai 3 mesi del 2020 (la prosecuzione dipende dall’Europa e dalla capienza del bilancio dei prossimi anni) o se restasse l’unico pilastro di una politica di attrazione degli investimenti al sud, peraltro sacrosanta. Ma rappresenta una scommessa sulla reattività delle forze di mercato, e non può quindi che vedermi d’accordo.

   

Il passo in più, che dovrebbe però riguardare tutto il paese e che sarebbe letto quindi anche come parte di una risposta alle istanze del nord, dovrebbe essere il riconoscimento che costo del lavoro, produttività e costo della vita non possono essere considerate variabili tra loro indipendenti. Il provvedimento voluto da Provenzano contiene l’implicito riconoscimento che al Sud queste dimensioni sono marcatamente disallineate – e per bilanciarle si taglia la parte contributiva del costo del lavoro; ma lo sono anche al nord, spesso a danno dei lavoratori, a causa di contratti nazionali che non tengono conto dell’effettivo contributo di produttività e del costo della vita nei diversi territori.

   

La risposta non può che essere il passaggio da un modello di contrattazione centrato sulla scala nazionale a uno che privilegi la dimensione territoriale e aziendale, legato a chiari obiettivi di produttività, con la possibilità che il contratto di secondo livello deroghi a quello nazionale di settore. Ne ha scritto qualche giorno fa Pietro Garibaldi su Repubblica, ricordando che secondo uno studio di Boeri, Ichino, Moretti e Posh questo schema consentirebbe una crescita dell’11 per cento dell’occupazione nazionale e dell’8 per cento dei salari. Il governo dovrebbe favorire il processo con riduzioni fiscali e accompagnarlo con l’introduzione di un salario minimo nazionale.

   

A proposito di decontribuzione: Provenzano ha convinto il governo a concentrare tutti gli sforzi sul sud. Io mi permetto di dire che non può bastare. Non perché pensi che agli sgravi per il sud debbano seguire quelli per il nord. Il punto è diverso: il mercato del lavoro evidenzia una bassa partecipazione delle donne e dei giovani. Le conseguenze sono drammatiche quanto note: forte disoccupazione giovanile, disuguaglianza di genere, crollo della natalità. La prima a risentirne è però la produttività, tanto che il Governatore Visco a più riprese ha indicato proprio l’aumento del tasso di occupazione giovanile e soprattutto femminile come una delle principali leve per sostenerne la crescita. Questo risultato si può ottenere attraverso un significativo (e strutturale) taglio del cuneo contributivo per le assunzioni di giovani e donne, in questo caso esteso a tutto il territorio nazionale.

   

Tre altre cose credo debbano essere fatte con urgenza, se si pensa che l’Italia debba ripartire dalle sue imprese. La prima: detassare gli utili reinvestiti nelle imprese. Il motore si riaccende infatti con gli investimenti pubblici e con quelli privati: questi ultimi vanno vigorosamente incentivati. La logica di Industria 4.0 va ripresa e allargata, senza venir meno al criterio di neutralità che determinò il successo di quella misura.

   

La seconda: investire nella formazione permanente dei lavoratori. Il rinnovamento tecnologico delle catene produttive produce risultati solo se accompagnato da un’evoluzione delle competenze e da un rafforzamento del capitale umano. Ed è evidente che su questo fronte si sta facendo troppo poco. Il diritto soggettivo alla formazione è nel contratto dei metalmeccanici ma si traduce nella maggior parte dei casi in pratiche sciatte, condizionate dalla scarsa qualificazione dei formatori. Bentivogli e Fuggetta hanno proposto un’infrastruttura nazionale privato/pubblica per avere un Fraunhofer in Italia. Serve al nord come al Sud, la mettiamo in piedi?

La terza: incentivare in ogni modo i processi di aggregazione tra imprese. La produttività italiana ristagna anche a causa dell’estrema frammentazione del tessuto produttivo: le imprese medio-grandi hanno una produttività mediamente molto superiore a quelle delle piccole imprese, e così accade per il livello dei salari. Non è affatto vero che piccolo è bello. Le micro aziende famigliari innovano poco e non sviluppano una domande di personale qualificato, assumono pochi laureati. Intervenire quindi sulla taglia delle aziende con incentivi fiscali che favoriscano l’aggregazione è quindi fondamentale.

   

Ci si intesta poi la rappresentanza dei ceti produttivi – e quindi innanzitutto del nord, ma evidentemente non solo del nord – se sulla semplificazione e sulla sburocratizzazione della pubblica amministrazione si fa sul serio, se si introduce un criterio di valutazione del merito tra i dipendenti pubblici, se si investe sulla qualità dell’istruzione scegliendo di dare una carriera agli insegnanti, anziché distribuire (scarsi) aumenti a pioggia, se si sfidano gli interessi corporativi che frenano l’efficienza del sistema giudiziario; se si sbloccano gli investimenti infrastrutturali trattenuti da vincoli e ritardi, se si accelera sulla digitalizzazione del paese. Tutto ciò che concorre a definire una cornice più favorevole al funzionamento delle imprese e all’attrazione degli investimenti incontra gli interessi di chi vive di mercato, quindi del ceti produttivi, quindi innanzitutto del Nord, ma certamente non solo del nord.

    

La premessa per fare ognuna di queste cose è credere nelle imprese, smettere di guardarle con diffidenza, smettere di contrapporne gli interessi a quelli dei lavoratori (e dei disoccupati), smettere di pensare che chi chiede attenzione per i ceti produttivi sia di destra, servo dei padroni e nipotino della Thatcher. A riguardo vale una citazione di Emmanuel Macron: “Una politica per le imprese non è una politica per i ricchi! E' una politica per l'intera nazione, una politica per l'occupazione. (…) La creazione di ricchezza, la prosperità di una nazione, è il fondamento di qualsiasi progetto per la giustizia e l'equità. Se vogliamo dividere la torta, la prima condizione è che ci sia una torta... E sono le imprese, che fanno questa torta, e nessun altro. E' una bugia dire che si difendono i lavoratori se non si difendono le imprese”.