La certezza di Svjatlana, pronta per un governo di transizione in Bielorussia
Lukashenka propone a Minsk un referendum che nessuno vuole, la sua rivale ispira gli scioperi di massa
Roma. Aljaksandr Lukashenka pensava di parlare davanti a una platea amica, i lavoratori di una delle fabbriche di stato, la Mzkt, la fabbrica di mezzi pesanti di Minsk. Invece, appena salito sul palco, è stato accolto dalle urla, dai “dimettiti!”, dai “vattene!”. I suoi bielorussi non lo vogliono più. “Potete gridare quanto volete”, ha detto Lukashenka, rigido, sbigottito, ormai odiatissimo. “Volete delle elezioni giuste?”. “Sì!”, gli hanno risposto gli operai, in coro. “Le elezioni ci sono già state, erano corrette. Finché non mi ucciderete, non ce ne saranno altre”. Eppure è arrivata la prima concessione: il presidente ha aperto alla possibilità di sostenere un altro voto soltanto dopo una riforma delle Costituzione, ha detto che è da tempo che pensa a un modo per condividere il potere, che da ventisei anni è accentrato nelle sue mani, e per questo vuole rinnovare la legge e poi indire un referendum, come ha fatto Vladimir Putin in Russia per garantirsi la possibilità di essere rieletto anche nel 2024. La nuova Bielorussia però non può nascere con Lukashenka, il dittatore cerca di prendere tempo, una riforma costituzionale richiede mesi, a volte anni. Ha capito di non essere più amato, che per lui non c’è più posto e spera che un referendum gli dia la possibilità di ricavarselo. I bielorussi aspettano soltanto che lui se ne vada e più si contano, più protestano, più scioperano, più hanno la conferma di essere loro la maggioranza. E questa maggioranza non cerca un compromesso o altre leggi fatte da Lukashenka, è ansiosa di conoscere il suo futuro.
Non è più soltanto una questione di proteste, di violenze per le strade e di brutalità nelle carceri – i detenuti in Bielorussia sono talmente tanti che sono stati creati dei campi di detenzioni nella regione di Minsk, con torri di guardia, filo spinato e guardie armate – gli scioperi che vanno avanti da una settimana dimostrano quanto sia grande e organizzato il dissenso. Non sono più soltanto i giovani a scendere in strada, ormai anche i lavoratori delle principali fabbriche del paese non vanno più al lavoro. Nessuno sembra aver votato per Lukashenka, neppure i capi delle fabbriche, un tempo sostenitori del dittatore. Ieri la televisione di stato, il canale Belarus1, mostrava le immagini di uno studio tv deserto. I giornalisti abituati a trasmettere le notizie che voleva il dittatore non sono andati a lavorare e hanno raggiunto i manifestanti che, fuori dagli studi, sventolando la bandiera rossa e bianca della protesta, gridavano “Raggiungeteci”. Anche gli operai della fabbrica di potassio Belaruskali ieri hanno scioperato e così pure trecento dipendenti dell’emittente Belteleradio, uno dei principali media di propaganda, e lo stesso hanno fatto i lavoratori delle ferrovie. La Bielorussia è immobile, speranzosa e arrabbiata, ha un’economia statalizzata, ma i dipendenti non vogliono più lavorare per uno stato che appartiene a Lukashenka.
Gli scioperi funzionano più delle proteste, sono il segno che tutta la nazione è contro il dittatore e che tutto sfugge al suo controllo. I primi erano stati indetti da Svjatlana Tikhanovskaja poco prima che fosse costretta ad abbandonare la Bielorussia. La leader dell’opposizione – e secondo i sondaggi indipendenti la vera vincitrice di queste elezioni – si trova in Lituania e ieri ha mandato un altro videomessaggio alla nazione. Era molto diverso dal suo primo video. Era un messaggio politico, lei era sicura di sé, parlava come la leader dell’opposizione e senza paura. Ha detto che è pronta a prendersi le sue responsabilità, a comportarsi come la leader di una nazione e a lavorare per un governo di transizione che porti all’organizzazione di nuove elezioni. Il futuro di Minsk è già avviato, e questo, ha detto Tikhanovskaja, “passerà alla storia e sarà ricordato come il tempo della liberazione”. Da quando la leader dell’opposizione è stata costretta all’esilio, le manifestazioni sono andate avanti. “Il mondo ci guarda con ammirazione e speranza (...) dobbiamo avere fiducia in noi stessi e negli altri”, ha concluso Tikhanovskaja, ormai sicura che in questo futuro della Bielorussia non ci credono soltanto i manifestanti, ma questo futuro passa per un negoziato, che sembra già forte dell’appoggio internazionale.
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