Almeno l'odio lo si può censurare?
Ogni giorno, da anni, politici e opinionisti vari sembrano avvicinarsi al caso tracciato dal filosofo Ronald Dworkin come limite estremo alla libertà di parola
Ha scritto ieri Galli della Loggia che dopo ogni nuovo attentato c’è qualcuno pronto a incolpare il clima d’odio e a citare nell’atto d’accusa le frasi improvvide di qualche avventuriero politico, come il “matamoro” Salvini – così lo chiama, alludendo immagino al soldato sbruffone della commedia dell’arte più che ai veri “ammazzamori” della Reconquista. Si potrebbe aggiungere che qui in Italia spunta sempre quello che rimette sul piatto il disco inquisitorio degli anni di piombo (lato a: mandanti morali; lato b: cattivi maestri). Propongo perciò di cambiar musica, e di fare un passo indietro, per non cadere nell’inutile simmetria dei riflessi condizionati. Prima di Halle, prima di El Paso, prima di Christchurch, prima di San Diego, prima di Macerata, prima perfino di Utøya e del capostipite Anders Breivik, in un 1999 che pare lontanissimo, il filosofo del diritto Ronald Dworkin formulò questa opinione illuminata e libertaria, così libertaria da esser citata (e sottoscritta) nel pamphlet di un anarchico, l’ex situazionista Raoul Vaneigem: “Mi oppongo a ogni restrizione della libertà di parola, a ogni forma di censura nei confronti di un discorso, anche razzista o sessista. Farò una sola eccezione: se arrivate in mezzo a una folla inferocita con una corda in mano e indicate un nero urlando: ‘Impiccatelo!’, allora meritate di essere perseguiti”. Così Dworkin. Ebbene, mi domando: quante volte, ogni giorno, da anni, politici e opinionisti vari si approssimano a questo caso limite?