La vera distopia sulla giustizia è la realtà
Nel romanzo di Jacques Charpentier "Justice Machines" un avvocato si sveglia dopo una lunga amnesia e scopre che la giustizia è amministrata da macchine che emettono sentenze casuali. Oggi sarebbe il male minore
Quasi più che la Porta Alchemica all’Esquilino, il Palazzo di Giustizia è il centro allegorico di Roma. In quel mastodonte umbertino Orson Welles volle girare parte del “Processo” di Kafka; Dino Risi, per “In nome del popolo italiano”, lo immortalò in pieno restauro, tra balaustre in crollo, segnali di pericolo, statue mutilate. Quando era ancora un ragazzetto fresco di laurea, Mauro Mellini fu guidato a visitarlo dall’avvocato Carlo Manes: davanti all’Aula Magna della Cassazione vide Giustiniano e Teodora, le iscrizioni in latino, e capì che la giustizia aveva preso su di sé i fasti liturgici del cattolicesimo. Un altro grande avvocato, Domenico Marafioti, nel bianco sporco del travertino del Palazzaccio vedeva il simbolo del “costante svariare della Legge, tra immacolatezze e brutture”. Ieri, sul Dubbio, Renato Luparini ha proseguito l’opera allegorica. Il tempio, dice, è diventato una fabbrica sforna-ordinanze, le sue aule sono laboratori riservati ai soli scienziati del diritto, i magistrati, e gli avvocati sono considerati questuanti molesti davanti alla porta della Legge. Si sentono superflui, malsopportati, o peggio: obsoleti. A Luparini voglio raccomandare “Justice Machines”, romanzo filosofico di Jacques Charpentier su un avvocato che si sveglia dopo una lunga amnesia e scopre che la Sala dei passi perduti è stata trasformata in una piscina dove i difensori si dedicano al nuoto sincronizzato, perché la giustizia è ormai amministrata da macchine che emettono sentenze casuali. All’epoca, nel 1954, era una distopia. Oggi sarebbe il male minore.