I social danno il contagio, ma non la catarsi
Perché l’epidemiologia è la grande metafora della comunicazione contemporanea
Sabato sera La7 ha cambiato tempestivamente la programmazione per mandare in onda il film “Virus letale”. Di quel medical thriller americano, che vidi alla sua uscita nel 1995, mi è rimasta impressa a lungo una scena. È quella in cui un contagiato tossisce in un cinema, liberando uno sciame di corpuscoli che volano per la sala e si insinuano nelle bocche degli altri spettatori ignari. Inutile dire che il film lo vidi al cinema, e mi sentii subito tra gli appestati. Come molti altri in sala, chiusi istintivamente la bocca e non la riaprii per il resto della proiezione. Era l’avvio di un processo antico come la tragedia greca: il miasma si diffonde dalla scena alla cavea, e reclama di essere purgato da una catarsi. E il genio sacrificale del cinema la dispensava, individuando il colpevole della pestilenza – non Edipo, ma il solito complesso militare-industriale, che ha insabbiato gli allarmi per fare del virus un’arma batteriologica – e una vittima non umana, la scimmietta portatrice sana del morbo: tirarle un colpo e catturarla non crea nuova colpa. Puniti i cattivi ed estirpato il contagio (che è la stessa cosa), gli spettatori potevano disserrare la bocca e respirare. Ebbene, cosa è cambiato da allora a oggi? La risposta è semplice: i social network. Ha scritto ieri Mauro Calise che assistiamo a “prove globali di contaminazione tra virale e virtuale”. L’epidemiologia è la grande metafora della comunicazione contemporanea. C’è un piccolo problema, però: a differenza del cinema, i social danno il contagio ma non la catarsi.