Se si resta abbarbicati all'orazione di Cicerone bisognerebbe almeno sapere che per lui i populares erano aristocratici che facevano leva sugli interessi della plebe a fini di potere personale
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La sinistra ha perso il popolo. Già, ma la destra deve imparare a parlare all’élite. Che noia. Fino a quando abuseranno della nostra pazienza? Che si parli del Fondo salva stati o del televoto a Sanremo, il dibattito italiano è fermo al palo piantato due millenni fa dall’orazione “Pro Sestio” di Cicerone: la lotta perpetua tra gli optimates e i populares. Ironicamente, lo schema popolo-élite è l’attrezzo più interclassista che ci sia oggi in Italia, lo maneggiano con la stessa puerile perizia la soubrette e il politologo accademico, Diego Fusaro e il suo barbiere. L’ultima puntata di questa infinita soap opera nazionalpopolare è il dibattito su un libro appena uscito per Marsilio, “Popolo ed élite. Come ricostruire la fiducia nelle competenze”. Se dobbiamo restare abbarbicati a Cicerone, però, almeno leggiamolo. Scopriremo, tra le altre cose, che anche ai suoi tempi i populares avevano poco a che fare con il popolo, erano aristocratici che facevano leva sugli interessi della plebe – cancellazione dei debiti, redistribuzione delle ricchezze – a fini di potere personale. E incontreremo un sociologo meno grossolano di molti nostri contemporanei, come dimostra il celebre passo della seconda catilinaria che enumera con precisione le categorie di persone – altro che “popolo” in astratto – arruolate da Catilina. Lì c’è il ritratto, perfetto ancora oggi, dell’altrimenti inspiegabile ascesa di fior di mezze tacche: “Vogliono arrivare in alto e si illudono di poter conquistare con la rivoluzione quelle cariche cui non aspirerebbero in una situazione di pace interna”.