Nel dialogo tra Camillo Ruini e Gaetano Quagliariello liberali e laici si scrollano di dosso le ultime incrostazioni ottocentesche di zolfo massonico e ritornano più bianchi della neve
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“Quando giungon davanti a la ruina, / quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina”. Ma quando giungon davanti al Ruini, ecco che liberali e laici si scrollano di dosso le ultime incrostazioni ottocentesche di zolfo massonico e ritornano più bianchi della neve. Nel dialogo tra Gaetano Quagliariello e Camillo Ruini, “Un’altra libertà” (Rubbettino), il miracolo si compie di nuovo. Certo, il presidente della fondazione Magna Carta, che in un’altra vita fu radicale, menziona “il nodo di una tensione ideale non risolta: quella tra liberalismo e cristianesimo”; ma presto capiamo che quel conflitto nasceva da una sequela di malintesi: una “malintesa idea di laicità”, una “malintesa concezione della libertà”; dove a malintendere, beninteso, erano i laici e i liberali. I quali, va da sé, malintendono anche il relativismo, perché dovrebbero smettere di applicarlo alla conoscenza e ai valori, per farne semmai un argine alla loro tracotanza; a inseguire sogni prometeici, infatti, il pensiero liberale “perde ogni traccia di relativismo (quello buono, al quale Lei ha fatto riferimento, eminenza)”. Sotto lo sguardo sacramentale di Ruini le parole d’ordine del liberalismo e della laicità (quella buona, eminenza, non il laicismo) si transustanziano; e via via che il dialogo s’inciela, nella corale beatitudine non distinguiamo più la voce del liberale e quella del cardinale, divenute identiche (a quella del cardinale): “La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi”.