Ci vuole una Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari?
I pro sarebbero migliaia, tra i contro: il rischio di glorificare i morti scordandosi delle vittime vive
L’idea di fare del 17 giugno, data dell’arresto di Enzo Tortora, la Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari mi suscita mio malgrado sentimenti contrastanti. Dando per acquisiti i mille e uno perché sì della proposta di legge, che ha appena avuto il via libera alla calendarizzazione, elenco alla rinfusa i miei sofferti perché no. Perché Tortora è l’unica vittima di malagiustizia che già commemoriamo in una untuosa e melodrammatica unanimità. Perché con il nome di Tortora i falsi garantisti si sciacquano impudicamente la bocca e i farisei si lavano la coscienza, per poi tornare a immergersi nelle acque fangose del sospetto. Perché il monito leggendario del fornaretto di Venezia o la lapide al Castello Sforzesco a perenne ricordo degli untori di Milano non hanno deviato di un millimetro la storia universale dell’infamia. Perché le giornate della memoria sono date in pegno ai restanti 364 giorni di oblio. Perché la proposta, che pure proviene dal Partito radicale, mi costringe a ricordare che Marco Pannella si affacciò nella vita italiana contro una sinistra “grande solo nei funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni”. Perché i nostri avversari creano santini vivi e vegeti e indaganti, a colpi di cittadinanze onorarie ai Di Matteo e ai Gratteri, e noi dovremmo fare lo stesso con vittime vive – come Ilaria Capua, accusata, nel nostro interminabile Seicento, di spargere la “peste manufatta” dei virus. Perché la memoria di Tortora, annacquata e falsificata com’è, ormai non dà fastidio a nessuno. Restano i mille e uno perché sì.