In questi giorni di pandemia ho spesso il prurito di rivolgere a chi ci governa le celebri parole di Pericle
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I grandi rivolgimenti nella vita di una società – guerre, tsunami, terremoti, uragani, invasioni di rane e di locuste, stragi dei primogeniti, carestie e ovviamente epidemie – ingenerano negli spiriti sensibili allucinazioni di vario tipo. A volte queste si appuntano sul futuro, e prendono la veste della visione apocalittica; altre volte si posano sullo specchietto retrovisore, suscitando traveggole storicistiche. Così, alle soglie della Seconda guerra mondiale, Karl Popper proiettò sul fondale della Grecia antica il teatro d’ombre del duello fra società aperta e società chiusa, allucinando un Platone totalitario e un Pericle antesignano di Churchill. Ebbene, invoco il suo caso come circostanza attenuante, a riprova che anche una mente di gran lunga più solida della mia può inciampare in qualche tranello percettivo. Detto ciò, e premesse una serie d’altre cose – che la democrazia degli antichi non è quella dei moderni, e che il poveretto morì proprio nella peste di Atene – in questi giorni di pandemia ho spesso il prurito di rivolgere a chi ci governa le celebri parole di Pericle: “Non pensiamo che il dibattito arrechi danno all’azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono. Giacché anche in questo siamo differenti: sappiamo dar prova della massima audacia e nello stesso tempo valutare con distacco quel che stiamo per intraprendere; mentre, per tutti gli altri, l’ignoranza spinge all’ardimento, la riflessione induce ad esitare”.