Ogni volta che vedo Di Maio penso a Forrest Gump
Nella celebre pellicola nasceva la diplomazia del Ping-Pong, dalla specialità del protagonista. Con il nostro ministro degli Esteri il Pong non è contemplato, rimane solo il Ping
Sarà per quel taglio di capelli sfumato da recluta, sarà per il vistoso deficit cognitivo, sarà per l’aria spaesata e gongolante da perenne imbucato a tutte le feste, ma io ogni volta che vedo Luigi Di Maio penso a Forrest Gump. Scorro le fotografie che punteggiano la sua fitta vita diplomatica da ministro degli Esteri – Di Maio che dona la maglia della nazionale al presidente cinese Xi Jinping, Di Maio con una vanga in mano a Brindisi accanto al segretario generale dell’Onu António Guterres, Di Maio seduto con Haftar a Bengasi sotto l’aquila di Saladino – e mi sembrano tutte fotomontaggi: Forrest Gump che passa in rassegna davanti al presidente Kennedy alla Casa Bianca, Forrest Gump ospite in tv spalla a spalla con John Lennon, Forrest Gump che riceve una targa dalle mani di Richard Nixon... Ma proprio qui si fermano le analogie. Quella targa, Forrest la riceveva perché era diventato un asso del Ping-Pong e lo avevano mandato in Cina per conto dell’esercito americano, a disputare incontri serratissimi sotto il ritratto di Mao. Nasceva così la diplomazia del Ping-Pong. Di Maio ha lanciato la diplomazia del Ping, come lui chiama il presidente cinese. L’idea è semplice, ma a suo modo geniale: consiste nel farsi lanciare palle, palline e pallone da Pechino nella propria metà campo restando immobili, sorridenti e a braccia conserte. Il Pong – che indicherebbe una certa bilateralità nell’approccio – non è contemplato: solo il Ping. Quando finirà a raccontare la sua vita su una panchina, sarà comunque troppo tardi.