Seicentosessantasettemila sono gli euro che la Corte d’appello di Palermo gli ha accordato come risarcimento per l’ingiusta detenzione. Peccato che il tempo non sia così galantuomo
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Ottantotto sono gli anni di Bruno Contrada; dieci ne ha passati in carcere, ventotto negli ingranaggi allucinatori della procedura; seicentosessantasettemila sono gli euro che la Corte d’appello di Palermo gli ha accordato come risarcimento per l’ingiusta detenzione. Provate voi a raccapezzarvi in queste cifre, che sembrano obbedire alla matematica leggendaria della storia sacra, quella dei novecentosessantanove anni di Matusalemme. Come di colpo ci appare misero l’arbitrio che fissa un tasso di cambio tra tempo e denaro, grandezze incommensurabili! “Ho un piede nella fossa, che me ne devo fare dei soldi?”, ha commentato Contrada, e io cerco di calarmi un poco nella sua amarezza. Ripenso a una notazione finissima di Elvio Fassone, magistrato, nel libricino sui suoi ventisei anni di corrispondenza con un uomo che aveva mandato all’ergastolo, “Fine pena: ora” (Sellerio). Se tutti conosciamo il rimpianto del passato, del tempo che avremmo voluto spendere meglio, l’uomo in cella sperimenta anche un crudele rimpianto rivolto al presente, alla vita che gli scorre accanto senza che possa acciuffarla. Chissà allora cosa si prova quando, come contropartita per quelle cataste di tempo e di vita andate in malora, ti danno un bigliettino con sopra un numero: seicentosessantasettemila? Anziché bilanciare i torti, quel numero assomma a una miriade di piccole promesse mancate un’ultima grande promessa che non sarà mantenuta. Quante cose potremmo fare, con tutti quei soldi! Ma il tempo non è mai galantuomo, è l’eterno lacché che ti regge il soprabito ghignando perché la festa è finita.