Il cattivo tedesco e il bravo italiano
Per essere una nazione, disse Ernest Renan, non bastano i ricordi condivisi, servono anche le comuni dimenticanze: ai tedeschi però non è stato concesso di dimenticare nulla perché noi potessimo dimenticare tutto
Quei nazisti dei tedeschi hanno pregiudizi antitaliani, ma quei mafiosi degli italiani hanno pregiudizi antitedeschi. E allora, dov’è la differenza? Ve lo dico io: la differenza è che noi siamo buoni, loro no. Lo abbiamo stabilito settantasette anni fa, nel 1943, e da allora non abbiamo trovato ragione di cambiare disco. Lo storico Filippo Focardi ha ripercorso la vicenda in un libro del 2013, “Il cattivo tedesco e il bravo italiano” (Laterza). Alla fine della guerra la propaganda alleata, la monarchia, l’esercito, i partigiani e – va da sé – i fascisti passati al qualunquismo trovarono utile, ciascuno per le sue ragioni più o meno commendevoli, fare da levatrici al parto dei due stereotipi siamesi: di qua l’umanità cordiale dell’italiano, troppo amante del bel vivere per desiderare la guerra, troppo disorganizzato per un colonialismo a regola d’arte; di là l’inumanità del tedesco, collocato in un punto indistinto e perturbante tra l’automa, il demone e la belva. Nei decenni successivi molti strati si sono aggiunti alla lasagna della memoria e dell’oblio, e il cinema ci ha messo del suo, fino ai coloni pasticcioni di “Mediterraneo” e all’ufficiale in amore del “Mandolino del capitano Corelli”. Per essere una nazione, disse Ernest Renan nel 1882, non bastano i ricordi condivisi, servono anche le comuni dimenticanze. Purché, aggiungerei, la distribuzione non sia troppo diseguale. E in fondo la differenza, nelle scaramucce tra i due pregiudizi gemelli, è tutta qui: ai tedeschi non è stato concesso di dimenticare nulla perché noi potessimo dimenticare tutto.