Il cyber-processo
Che fare quando il macchinario è avveniristico ma il diritto è archelogico?
Devo dire che l’idea di sostituire Davigo con un computer mi alletta molto, se non altro perché a questo ipotetico Cybercamillo potrei disattivare la scheda audio. Ma restiamo con i piedi per terra. Ieri sul Tempo c’era una bella intervista all’avvocato Luca D’Auria sull’uso dell’intelligenza artificiale nei processi, per limitare l’arbitrio, l’errore, il pregiudizio, lo spazio aleatorio delle simpatie e delle antipatie. Al giudice serve, come al pilota, un computer di bordo: “Bisogna abbandonare l’idea che l’essere umano sia il sacerdote divino e infallibile del giudizio”, dice D’Auria, e sembra di riascoltare Lee Loevinger, il pioniere della giuscibernetica, che se la prendeva con l’idea di giustizia come “culto segreto di un gruppo di professionisti sacerdotali”. Era il 1949, e i mezzi dell’epoca non erano certo all’altezza. Pochi anni dopo, nel 1955, un racconto di fantascienza di Frank Riley, “The Cyber and Justice Holmes”, immaginava un duello in tribunale tra l’uomo e il computer, dove il secondo si arrendeva alle sottigliezze e alle sfumature del primo. Mettiamo pure che oggi il dislivello sia tecnicamente superabile. Che fare quando il macchinario è avveniristico ma il diritto è archelogico? “Le norme di diritto sono già un sistema algoritmico”, dice D’Auria, “ed oggi c’è l’opportunità di far leggere il manuale d’istruzioni processuale sia all’essere umano sia alla macchina”. Sarà. Poi però ho provato a immaginare un cyber-processo per concorso esterno in associazione mafiosa, ed è stato subito un racconto di fantascienza. Il computer, per la disperazione, esplodeva.