La cultura retorica
Il raccolto di questi giorni, specialità nazionale, è così abbondante che per lavorarlo dobbiamo usare le trebbiatrici di Luca Ricolfi e di Luigi Salvatorelli
L’Italia produce poco grano perché è tutta coltivata a retorica, diceva Gassman nel “Profeta” di Dino Risi, e il raccolto di questi giorni – le rodomontate di Di Maio contro la Grecia, sul versante del governo; le pappalardate del 2 giugno di Salvini e Meloni, su quello dell’opposizione – è così abbondante che per lavorarlo dobbiamo far venire da Torino la trebbiatrice di Luca Ricolfi e quella, arrugginita ma tuttora funzionante, di Luigi Salvatorelli. Già, perché è fin troppo evidente che la “società signorile di massa”, dominata da ceti parassitari e improduttivi, sopravvive facendo affidamento sui covoni della retorica; al punto da volersela far finanziare, questa retorica, dal grano straniero: cos’altro era, la proposta dei bond patriottici garantiti dalla Bce, se non una pretesa di giocare all’orgoglio nazionalista con il mulino degli altri? E qui veniamo a quella che Salvatorelli battezzò “piccola borghesia umanistica”, la cui mentalità “si riassume in una parola sola: retorica”, e che guarda ai creatori di ricchezza con un misto di “repulsione moralistica” e “invidiosa cupidigia”. Non essendo propriamente una classe, ma un agglomerato che vive in margine del processo produttivo, essa si espande quanto più quel margine si allarga. Non c’è da stupirsi, quindi, che la retorica della Nazione sia tornata a prosperare nelle acque economiche stagnanti della società signorile di massa. Dimenticavo: la trebbiatrice di Salvatorelli è del 1923, anno in cui la piccola borghesia umanistica ebbe l’occasione di diventare protagonista della scena politica. Che non sia di cattivo auspicio.