La valigetta da Caracas non è più inverosimile di Di Maio alla Farnesina
Imbarcarsi su un aereo con una valigia zeppa di quattrini è da pazzi. Quasi come prendere un trentenne scarso in geografia, poco versato nelle lingue e catapultarlo alla guida della politica estera di un paese del G7
Mica è così facile imbarcarsi su un aereo a Caracas con una valigia diplomatica zeppa di quattrini, atterrare fischiettando a Malpensa, schivare abilmente tutti i controlli, farla sotto il naso agli agenti della Digos, montare su una berlina senza dare nell’occhio e arrivare a recapitarla, sfiniti, nelle mani di Casaleggio. Bisogna essere dei pazzi per tentare un’impresa simile, ha detto il console venezuelano a Milano intervistato dal Corriere della Sera. In effetti, suona inverosimile. Quasi inverosimile come prendere un trentenne scarso in geografia, poco versato nelle lingue (inclusa la propria) e digiuno di relazioni internazionali e catapultarlo miracolosamente alla guida della politica estera di un paese del G7. Può sembrare che tra le due imprese non ci sia alcun nesso, e invece il nesso c’è, grande come una casa. Anche perché Di Maio e il suo movimento di valigette diplomatiche ne avevano parecchie: quella europeista e quella antieuropeista, quella per “Ping” e quella per Trump, quella per Macron e quella per i gilet gialli, quella per Putin e quella per la Politkovskaja, due a due finché non diventano dispari. E altro che agenti della Digos: sono riusciti a dribblare Floris e la Gruber, a menare per il naso Massimo Franco e il Corriere, a riscrivere da un giorno all’altro il programma di politica estera direttamente sul pdf, e a diventare il primo partito italiano con l’incitamento di tre quarti dell’establishment senza essere costretti a scoprire le carte su una faccenduola come la collocazione internazionale del paese. Hai capito che fuoriclasse?