Non serve andare a Bali per vedere all'opera lo stato-teatro
Villa Pamphili e il passaggio dalla rappresentanza alla rappresentazione teatrale
Come dite? Il bonus vacanze si può usare solo in Italia e manda all’aria il vostro sogno di una vacanza a Bali? Suvvia, che bisogno c’è di andare fin laggiù: prenotate una stanza a Roma nei pressi di Villa Pamphili o nel prossimo luogo dove il cardinal Casalino deciderà di manifestare l’éclat di Conte II, e sarà come spendere qualche giorno nella Bali del diciannovesimo secolo, palcoscenico di quello che il grande antropologo Clifford Geertz, in “Negara” (1980), chiamò stato-teatro. A Bali, dice Geertz, i governanti erano piuttosto indifferenti al governare, attività a cui si dedicavano in modo esitante, incerto, approssimativo; in compenso, curavano ossessivamente il cerimoniale, lo spettacolo, la messinscena drammatica dei valori fondanti della cultura balinese. E questo teatro politico non era, come nei più sfarzosi tra gli stati moderni, un mezzo per abbindolare i sudditi, per mascherare sotto la magnificenza e la meraviglia la prosa meschina degli interessi; era semmai un fine, il fine di tutta l’arte politica: “Il potere serviva la pompa, non la pompa il potere”. Tempi e luoghi remoti, certo. Ma scrutando oggi nei cieli politici di tutto il mondo – specie dal nostro osservatorio, dove dovrebbero accorrere legioni di antropologi – capita sempre più spesso di avvistare fenomeni simili. Entrando nella casa zodiacale del populismo, la nostra sfera pubblica ha compiuto una rotazione sul proprio asse che ha messo in ombra il lato della rappresentanza per mostrare quello della rappresentazione. Il teatro non è un instrumentum regni, perché il regno è un grande teatro.