Il Bi e il Ba
Il carcere visto dal buco della serratura
Un luogo chiuso ma non più invisibile, anzi continuamente e trionfalmente esibito, su cui riversare i nostri bisogni di umiliazione simbolica
In coda a “Dei relitti e delle pene”, utilissima radiografia della questione carceraria in Italia appena pubblicata da Rubbettino, Stefano Natoli ricorre alle parole di un romanzo di José Saramago, “Cecità”, per dire che rispetto alle patrie galere siamo come “ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Mi sembra una metafora ben più accurata di quella del carcere come discarica in cui la società nasconde le sue vergogne. E’ evidente infatti che il sentimento della vergogna non ci sfiora neppure; anzi, sono sempre più numerose le avvisaglie che le miserie del sistema carcerario stiano conquistando una nuova e perversa visibilità. La sfrontatezza cerimoniale e organizzata dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, svelati dalla benemerita inchiesta di Nello Trocchia su Domani, o, per altro verso, le aggressioni ostentatorie di esponenti politici nazionali e di talk-show maramaldi contro quelli che oggi sono detenuti inermi nella custodia dello stato – si tratti di Cesare Battisti o di qualche boss moribondo – sembrano definire un nuovo ruolo del carcere nell’economia psicopolitica nazionale: un luogo chiuso ma non più invisibile, anzi continuamente e trionfalmente esibito, su cui riversare i nostri bisogni di umiliazione simbolica. Ci godiamo lo spettacolo con occhi avidi, e l’unico punto cieco riguarda l’umanità dei detenuti. Dopo tutto, le metafore che usiamo con distratta ferocia la sanno più lunga di noi; e non ci voleva un genio per capire che, quando butti la chiave, ti si spalanca il buco della serratura.