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IL BI E IL BA

Decreto ristori a' dì perduti

Guido Vitiello

Nel nome dell'ultimo provvedimento, sospeso tra il foscoliano e il giuridichese, è riassunta l’essenza linguistica dell’avvocato Conte, nel cui eloquio si distilla la storia della borghesia nazionale e della sua retorica

C’è nel codice Rocco un comma che si intitola “Turbata libertà degli incanti”. Umberto Eco suggeriva che se non sapessimo che incanti sta in quel contesto per aste, e che dunque l’articolo si riferisce banalmente alla turbativa d’asta, potremmo scambiarlo per “un incipit poetico, fra rondismo ed ermetismo, sui fremiti di un’adolescenza delusa”. Ma bisogna dire che, pur sapendolo, non è facile sopprimere quell’oscillazione del metronomo interiore tra la vaporosità della lingua letteraria e la legnosità del gergo giuridico. È un equivalente verbale dell’illusione anatra-lepre. Qualcosa di simile avverto nel nuovissimo decreto “Ristori”.

 

La mia mente (e grazie al cielo solo quella) sprofonda immediatamente nei “Sepolcri”, che alle medie mi fecero mandare a memoria: “Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte?”. Potremmo ribattezzarlo in effetti “decreto ristori a’ dì perduti” – i giorni di lavoro e di guadagno andati in malora, i giorni dissipati senza premunirci contro la seconda ondata. Ma basta anche solo la formula abbreviata per cogliere l’essenza linguistica dell’avvocato Conte, nel cui eloquio si distilla la storia della borghesia nazionale (specie meridionale) e della sua retorica dove il governo sulle parole è scambiato magicamente per governo sulle cose. Decreto “Ristori”: un trascorrere tra il foscoliano e il giuridichese senza mai passare per i dati e la realtà, come il rasserenante andirivieni di una spola su un telaio di sole parole. A voler usare un’altra formula anatra-lepre, è la spola per il pizzo chiacchierino.

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