Ma dico io, usiamo e abusiamo della metafora del virus per parlare di qualunque cosa, e poi ci scordiamo di provare se quell’abitino retorico un po’ liso si adatti per caso alle elezioni presidenziali americane? Perché mai andare in soffitta a ripescare dai bauli repertori di immagini più antiche e pompose – il bivio, il giudizio finale, la lotta fratricida – quando abbiamo tutti i giorni sotto il naso una metafora che calza a pennello? Circola per il mondo un contagio che l’infettivologo Emmanuel Macron battezzò due anni fa la lebbra populista, con grande scorno dei permalosissimi untori, e gli Stati Uniti ne sono per mille ragioni il più pericoloso focolaio occidentale. Il vaccino finora nessuno lo ha trovato, anzi è il caso di dire che la ricerca procede ovunque su binari morti. E nessuno che abbia sale in zucca può pensare seriamente che questo vaccino si chiami Joe Biden, o (figuriamoci) Giuseppe Conte. Che si fa, allora? Semplice: si cerca di contenere il contagio entro limiti padroneggiabili e di guadagnare tempo per mettere a punto la cura capace di debellare il morbo, sempre che ne esista una. Il tempo – la famigerata t – è la variabile a cui affidare le nostre speranze. Ecco, il responso delle urne ci darà una misura dell’indice Rt, che come tutti nostro malgrado abbiamo imparato è un parametro influenzato dalle azioni intraprese per frenare l’epidemia. Sapremo a che ritmo si riproduce il contagio dopo l’adozione delle prime misure di contenimento. Non è poco, ma non è l’Armageddon.
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