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il bi e il ba

Indignarsi per i giocatori che non si inginocchiano è una buffonata

Guido Vitiello

Di nuovo scimmiottiamo le guerre culturali americane. Non fa male chi si inginocchia, l'Italia ha seri problemi di razzismo. Ma c'è chi se la prende con quelli che non l'hanno fatto: è la figura dell'"arrampicatore morale"

Solo i poeti tragici sono all’altezza di un’epoca tragica, diceva Karl Jaspers spiegando come mai, negli anni del nazismo e della guerra, fosse tornato a leggere Eschilo. Il corollario è che solo gli autori comici sono all’altezza di un’epoca comica. E infatti, leggendo i giornali, mi sorprendo quasi ogni mattina a pensare a “Seinfeld”, la geniale sitcom creata alla fine degli anni Ottanta da Jerry Seinfeld e Larry David. C’è un episodio in cui Kramer, uno dei quattro amici intorno a cui ruota la serie, partecipa a una marcia contro l’Aids. Va a registrarsi, ma litiga con la signora del banchetto che vuole costringerlo ad appuntarsi sulla giacca un nastrino rosso, simbolo della lotta all’Aids. Lui si rifiuta di farlo, e se ne va chiamandola “ribbon bully”, bulletta del fiocco. Anche gli altri partecipanti lo guardano in cagnesco: perché non hai il nastro? Non sei anche tu contro l’Aids? Sono contro l’Aids, risponde Kramer, infatti sto marciando, solo che non mi va di mettere il nastro. Niente da fare: dei manifestanti indignati, guidati da una coppia di gay portoricani, lo trascinano in un vicolo e lo pestano: “Ora gli insegniamo a mettersi il nastro”. 

 

Ci ho ripensato, giorni fa, per via della polemica sui calciatori che non si sono inginocchiati prima di Italia-Galles: “Mezza Nazionale azzurra se ne frega del razzismo?”, titolava un giornale; e un altro: “E’ chi non si inginocchia che deve spiegare perché, non il contrario”. Come sempre accade quando scimmiottiamo le guerre culturali americane, la faccenda ha preso subito una piega comica, e la lista di proscrizione dei sei reprobi è diventata, sull’altro fronte, un albo d’oro degli eroi della resistenza alla dittatura del politicamente corretto. E’ tutta una buffonata, una deprimente buffonata. Ma forse vale la pena di spendere qualche parola in più sulla meccanica socio-psicologica che porta a umiliare pubblicamente chi non compie un atto di umiltà pubblica, com’è appunto il gesto di inginocchiarsi. Credo che sia qui all’opera una figura cruciale della scena tragicomica contemporanea, per la quale uno dei più brillanti allievi di Freud, il viennese approdato in America Theodor Reik, trovò forse il nome più adatto: “moral climber”, l’arrampicatore morale. La formula compariva nel 1941 in “Masochism in modern man”, e non c’è da stupirsi che alcuni tratti della personalità masochistica tornino utili per capire la nostra epoca incentrata sul culto della vittima, convinta che i rapporti di potere dominante-dominato, privilegiato-oppresso, siano la chiave universale per decifrare i fenomeni sociali.

 

Reik cercava di spiegarsi il bisogno di autoumiliazione esibita e teatrale che è tipico del masochista: “Un individuo che umilia se stesso così facilmente e spontaneamente è certo di non poter essere scalfito nella sua più intima dignità. La perdita è, nella realtà psichica, un guadagno. Sul mercato morale, la negazione di sé appare un buon investimento. Non è stato detto che chiunque si umili sarà esaltato? E questa profezia è incompleta senza l’altra, che chiunque si esalterà sarà abbassato. L’ambizione del masochista si estende anche a queste qualità morali. Egli vuole avere un carattere migliore, un carattere superiore agli altri. Egli è un arrampicatore morale”. Il gesto di inginocchiarsi, beninteso, può essere compiuto con sincera umiltà e con grande dignità, e non dubito che sia stato questo il caso per i cinque calciatori italiani, tanto più che il nostro paese ha serissimi problemi di razzismo, il primo dei quali è la convinzione di non averne alcuno. Ho invece tutte le ragioni di pensare il peggio dei “taking-the-knee bullies”, i bulli dell’inginocchiamento. “E’ proprio questa esibizione a metterci in sospetto che tutta questa umiltà, autoumiliazione e remissività non sia altro che un ampio preliminare, a cui seguirà più tardi l’essenziale”, scriveva ancora Reik. “Come un araldo inviato avanti a portare notizie luttuose, ma che sarà seguito molto dopo da un messaggio di vittoria. Certo, la sconfitta è messa in primo piano, la sua importanza è esagerata; ma per aprire la strada agli annunci di gloria”. Così, quando m’imbatto nel corteo dei penitenti che si flagellano sui social network per espiare l’uno o l’altro “privilegio”, facendo in modo che tutti vedano bene le loro ferite, non li saluto come esempi di umiltà. Ecco – mi dico – degli arrampicatori morali.

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