il bi e il ba
L'intersezionalità è un'affettatrice per scomporre l'individuo
Diverse forme di oppressione – secondo l’etnia, il genere, la classe – si sovrappongono creando complesse relazioni di potere. Una premessa accettabile. Ma la ricaduta sulla mentalità comune è una casistica pedante e schizofrenica
Leonardo Sciascia paragonava lo strutturalismo, allora in voga nelle università italiane, all’affettatrice della mortadella. Con la sua furia nomenclatoria e la sua mania di scomporre tutto in elementi funzionalmente connessi, gli sembrava che facesse a fette i suoi oggetti di studio, rendendoli in fin dei conti uniformi e indiscernibili. Chissà quale paragone avrebbe trovato per l’ultima moda intellettuale, l’intersezionalità, nata trent’anni fa in America negli studi giuridici e sociologici ma tracimata solo di recente nel dibattito pubblico. Io ho un paio di metafore alla buona da proporre, che non riguardano tanto la teoria accademica quanto i suoi usi politici e le sue ricadute nella mentalità comune – nella gramsciana “filosofia dei non filosofi”, insomma. L’intersezionalità si fonda sulla premessa, di per sé non peregrina, che diverse forme di oppressione e di discriminazione – secondo l’etnia, il genere, la classe e un nugolo di altri fattori – si intrecciano e si sovrappongono creando architetture complesse di relazioni di potere. L’identità di ciascuno è un crocevia di appartenenze e di caratteristiche che gli assegnano un posto preciso nella gerarchia del dominio, al cui vertice sta il maschio bianco eterosessuale sano, abile e benestante. C’è chi ha illustrato questa idea in un intricatissimo mandala, la Ruota del Privilegio, la cui metà inferiore è occupata da tutte le minoranze oppresse e da tutte le condizioni svantaggiate. Anche qui, insomma, è all’opera qualcosa di simile all’affettatrice di Sciascia, una scomposizione in mille sotto-identità di gruppo. Ma che uso fare della mortadella così ottenuta?
Ebbene, certi orfani dell’utopia socialista – la nozione di intersezionalità nasce, per un’astuzia della ragione storica, proprio nel 1989, anche se con un ambito di applicazione molto circoscritto – hanno voluto farne una specie di Frankenstein: perduto il proletariato, il grande soggetto collettivo della lotta di classe, ne hanno assemblato uno nuovo usando come membra le diverse lotte identitarie, e hanno così rimesso in moto la dialettica e la storia. Jonathan Haidt ha trovato un’altra metafora efficace: l’intersezionalità è la Nato dei Social Justice Warriors, un’alleanza tra gruppi discriminati che interviene se anche un solo membro è sotto attacco. Non esiste, per restare in metafora, una struttura di comando centralizzata, anche se il femminismo e l’antirazzismo mostrano a volte una vocazione annessionista (la filosofa analitica Kathleen Stock, nel recentissimo “Material girls”, cita la definizione ambiziosamente ecumenica data da una rivista di femminismo intersezionale: “Il femminismo si sforza di porre fine alla discriminazione, allo sfruttamento e all’oppressione delle persone a causa del loro genere, orientamento sessuale, razza, classe e altre differenze”). Il Frankenstein si tiene insieme a fatica, un po’ perché i suoi organi, seguendo ciascuno la propria logica interna, possono entrare in conflitto o scatenare crisi di rigetto (il caso più vistoso sono le frizioni tra la LGB e la T nella comunità LGBT); e un po’ perché, una volta azionata l’affettatrice, non c’è limite al numero e alla sottigliezza delle fette.
La femminista illuminata Christina Hoff Sommers, democratica vecchia maniera, racconta un aneddoto che mostra bene gli inconvenienti della norcineria intersezionale. A un convegno femminista, le partecipanti cominciarono a dividersi secondo le linee dell’identità. Donne ebree (come lei), afroamericane, asioamericane, lesbiche, anziane, disabili, sovrappeso, in transizione, ma nessuno di questi gruppi si rivelò stabile. Il “fat group” si polarizzò in fazioni gay ed etero. Le donne ebree si divisero tra quelle che avevano accettato il loro retaggio e quelle che cercavano di uscirne. Le donne lesbiche si divisero in due fazioni, bianche e nere; ma all’interno del gruppo delle nere si creò una tensione tra quelle che avevano compagne nere e quelle che avevano compagne bianche, e che dunque condividevano una quota di partecipazione al privilegio e all’oppressione: da qui un ulteriore scisma. Si creò infine un gruppo di donne con allergie. Hoff Sommers, divertita e sconcertata, scelse di unirsi a un gruppo di separatiste lesbiche, ma solo in quanto fumatrice. L’episodio è caricaturale quanto si vuole, ma getta una luce umoristica sulle tante microinterazioni che ogni giorno, sui social network, si svolgono seguendo questo canovaccio.
Al di là dei suoi meriti accademici, insomma, quando è percolata dai campus nel dibattito generale l’intersezionalità si è tradotta in una grossolana, puerile teoria del potere – una specie di catalogo di caselle da spuntare, con sommatoria finale – da cui discende una casuistica pedante e schizofrenica. Ma la mia segreta speranza di liberale è che in questa affettatura identitaria sempre più sottile i gruppi continuino a scindersi fino a riportarci, in ultimo, all’unità fondamentale: l’individuo, terminale di una trama unica e irripetibile di intersezioni. In questo senso, la metafora più felice potrebbe essere quella della “zig-zag girl”, il trucco illusionistico in cui un mago fa entrare la sua assistente in un armadietto e poi fa penetrare delle lame tra le commessure per segarla in due, tre, a volte perfino otto parti; ma alla fine dello spettacolo – oplà! – la ragazza ne esce tutta intera, e trionfante.