il bi e il ba
Sun Tzu e l'arte della guerra (culturale). Debunking e rebunking
L'ultima frontiera dei miliziani della sinistra ideologica consiste nello spiegare che la cancel culture non esiste. Con infinita pedanteria. Peccato che la controffensiva sia il grottesco panico morale dei conservatori
C’è una scena famosa di “Luci della città” di Charlie Chaplin in cui il vagabondo, sperando di raccogliere la somma necessaria per curare la fioraia cieca, si cimenta in un incontro di boxe. La sua tecnica di combattimento è la più vigliacca che si possa immaginare, ma si rivela inopinatamente efficace: Chaplin, già mingherlino, si nasconde dietro alle spalle imponenti dell’arbitro, rendendosi così invisibile al rivale – salvo colpirlo a tradimento appena l’arbitro si scansa. Per un pelo non vince l’incontro.
Mi capita di ripensarci, ultimamente, mentre osservo la strana piega che stanno prendendo le guerre culturali in America e in Europa. Una piega, per così dire, taoista. Una delle massime di Sun Tzu sull’arte della guerra recita così: “Impercettibile, quasi senza forma; misterioso, quasi senza rumore: così sei padrone del destino del nemico”. Du You, storico e alto ufficiale della dinastia Tang, diede allo stesso principio una formulazione meno enigmatica: “Sii così impercettibile da passare inavvertito, muta repentinamente come uno spirito misterioso”. Ebbene, la guida strategica delle guerre culturali è stata affidata, a sinistra, a un mandarinato taoista dall’infinita pedanteria, quello dei debunker. Il loro compito è fingere che l’esercito non esista, o che non sia mai localizzabile sulla mappa con precisione, o che disponga di forze ben più esigue di quanto sembra, così da far apparire i nemici come dei paranoici in lotta con i fantasmi della propria immaginazione. La tattica sembra funzionare, specie perché sul fronte opposto hanno delegato la gestione della guerra a rozzi propagandisti inclini al grande complotto, che hanno imparato, più che da Sun Tzu, dal generale settecentesco Suvarov, il teorico delle armate popolari che animate dall’“impeto russo” accoppiano spietatezza asiatica e fervore cristiano.
I debunker addestrati nell’arte militare taoista sono quelli che ti spiegano che la cancel culture non esiste, e ne restringono ad arte la definizione di modo che tu non possa infilzarli mai. Ma questa mistica arte del pieno e del vuoto può essere usata in ogni campo. Che si parli di gender theory, di identity politics, di social justice, di cultural marxism o, ultimamente, di critical race theory, lo schema è sempre identico: a una formulazione grossolana, che distorce o ingigantisce l’oggetto del contendere, viene opposta una contro-formulazione cavillosa, che lo fa disinvoltamente scomparire o lo “muta repentinamente come uno spirito misterioso”. Non è tutto. A seconda delle convenienze, una bandiera ideologica viene rattrappita in una nozione iperspecialistica, come dopo un lavaggio maldestro, e ripiegata dialetticamente in mille parti per farla apparire come un cencio qualunque; salvo tornare a inalberarla e a farla sventolare con tutti i suoi colori, se l’occasione lo richiede. Lo stiamo vedendo in questi giorni, perché è la tattica con cui il generale Zan combatte la sua battaglia: quando il nemico attacca, l’“identità di genere” prende la forma di una inoffensiva formuletta tecnico-giuridica da acquisire senza troppi drammi; quando si tratta di tener alto il morale delle truppe di Instagram, ecco che le stesse tre parole diventano la grande frontiera antropologica dell’avvenire, su cui non arretrare di un millimetro. Intanto, sul fronte avverso, si agita lo spauracchio del transumanesimo, e si dà a intendere che il ddl Zan – che al massimo porterà in carcere un po’ più a lungo qualche picchiatore – ci porterà dritti in una distopia alla Houellebecq.
Il tao del debunking, o meglio dell’alternanza tra il debunking e il rebunking, tra la minimizzazione e la riaffermazione, è tatticamente efficace, tanto quanto è perdente la controffensiva conservatrice tutta fondata sul panico morale. “Contro un attacco abile, non si sa dove difendersi. Contro una difesa abile, non si sa dove attaccare”, dice ancora Sun Tzu. Ma per chi non ha genio di farsi arruolare in nessuno dei due eserciti, questo gioco del RisiKo non è divertente né utile. Sarebbe cosa buona, in democrazia, che le guerre culturali si combattessero onorevolmente e a viso aperto, e che gli sfidanti, con spirito cavalleresco, assumessero tutta la responsabilità delle bandiere sotto cui marciano.