il bi e il ba
Come passare dall'illiberalità woke a quella conservatrice. Lezioni (da non seguire) dalla Florida
Le padelle woke sono pronte a rigirare qualunque frittata pur di non riconoscere l’intolleranza che ha attecchito nelle università. Ma il "gramscismo di destra" di Christopher Rufo, stratega del governatore DeSantis, è una brace nella quale è meglio non cadere
Un poemetto eroicomico sulla nuova fase delle guerre culturali americane potrebbe chiamarsi “Bracepadellomachia, la Battaglia della Padella e della Brace”. Sarebbe un po’ come la “Batracomiomachia” rifatta da Leopardi in forma di satira politica, solo che al posto delle rane borboniche e dei topi liberali troveremmo le padelle woke (da non confondersi con i tegami cinesi) e le braci della Florida desantisiana, che non è difficile immaginare come dei barbecue da villetta suburbana. Quanto agli eredi del leopardiano Leccafondi, l’intellettuale inseguitore delle mode culturali a cui sta a cuore il “progresso del topesco intendimento”, beh, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta. La battaglia sta prendendo una piega eroicomica perché è combattuta da guerrieri affetti, in larga parte, da quella che Ortega y Gasset chiamava “emiplegia morale”, l’incapacità di vedere ragioni nell’altro fronte o contraddizioni nel proprio, difetto che fa sì che essere di destra o di sinistra diventi “uno degli infiniti modi che l’uomo può scegliere per essere un imbecille”. Le padelle woke sono pronte a rigirare qualunque frittata pur di non riconoscere l’intolleranza, le aperte o sottili intimidazioni e il deprimente conformismo ideologico che hanno attecchito in questi anni nei campus, e trovano sia molto intelligente trattare tutto questo come una “narrazione” – l’ennesima – da “decostruire”, una favola spacciata dai propagandisti trumpiani a suon di balle e manipolazioni (che pure ci sono).
Nella brace conservatrice crepita invece l’idea grossolana e cospiratoria che lo stato attuale delle università sia l’approdo di una “lunga marcia” di radicali, neomarxisti e postmodernisti assortiti per conquistare deliberatamente l’egemonia culturale. Il mastro grigliatore di questo barbecue è il giovane Christopher Rufo del Manhattan Institute, il più noto dei sei trustees che a inizio gennaio il governatore della Florida Ron DeSantis ha scelto per occupare i posti vacanti del consiglio di una piccola università di Sarasota, il New College of Florida. Rufo, il furbo stratega della controffensiva anti woke con cui DeSantis si prepara alla nomination per le prossime elezioni presidenziali, è stato in questi anni l’animatore della campagna contro l’insegnamento della Critical Race Theory, bersaglio accademico all’apparenza un po’ oscuro ed esoterico scelto machiavellicamente, e tuttavia efficacemente, come perfect villain (le parole sono dello stesso Rufo) per ottenere la vittoria delle sue truppe. Rufo si presenta all’occasione come una specie di gramsciano conservatore, ed è questo forse un dettaglio su cui vale la pena spendere qualche parola.
Il fantasma del “gramscismo di destra” compare e scompare a intermittenza da decenni, almeno da quando, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, Alain de Benoist lo battezzò – anche se quello del teorico della Nouvelle Droite era a detta di molti un gramscismo per modo di dire, tutto spirito e sovrastruttura, un po’ troppo simile all’Evola della “metapolitica”. Di un gramscismo di destra parlerà molti anni dopo, e in tutt’altro senso, Sarkozy. Qui da noi il nome di Gramsci rispunta ogniqualvolta si vuole sperimentare una qualche politica culturale a destra – lo si evocò già ai tempi di Fiuggi, poi nel decennio successivo fu la volta della fondazione finiana FareFuturo, nonché del “gramscismo liberale” teorizzato sul Domenicale di Dell’Utri. Ora la parola d’ordine di Fratelli d’Italia è “controegemonia”, ma come ha mostrato Giovanni Belardelli su queste pagine si tratta più che altro dell’annuncio di un’operazione di marketing culturale, fatta di festival, rassegne e vernissage: tutta roba ben poco gramsciana.
Chris Rufo, che di italiano ha solo le origini e il padre ciociaro, non sarà magari un fine esegeta di Gramsci ma sembra avere idee un po’ più chiare dei controegemonisti di casa nostra. Il New College of Florida è il banco di prova simbolico della sua strategia. Simbolico in un duplice senso: perché si tratta di un’università di relativa importanza, quasi scelta a pretesto, e perché l’operazione si presenta con grande sfoggio vetrinistico e fanfara propagandistica (Rufo ha annunciato su Twitter di presentarsi a Sarasota con una “squadra di sbarco”, dimostrando per l’ennesima volta che i gramsciani di destra, per impazienza o spirito di revanscismo, al dunque amano giocare ai piccoli leninisti). Non mancano tra i mille annunci di Rufo quelli caricaturali, come la proposta di dare al college uno stile visivo neoclassico, e quelli potenzialmente illiberali o addirittura in odore di orbanismo, tali da allarmare anche associazioni per la libertà accademica che hanno combattuto per anni l’intolleranza woke, e che oggi temono di passare dalla padella degli illiberali di sinistra alla brace degli illiberali di destra.
E’ difficile capire che andazzo prenderanno le cose, ma tutto sembra promettere nuove deplorevoli scene per la nostra Bracepadellomachia. C’è dell’altro, però. Rufo e i suoi – in questo, in effetti, piuttosto gramsciani – hanno capito che i colpi decisivi delle guerre culturali non si assestano nel dibattito delle idee e nei cieli un po’ astratti della sovrastruttura, ma sul terreno in cui l’ideologia si salda agli apparati amministrativi: nella fattispecie, le burocrazie della Diversity, Equity and Inclusion (Dei) alle quali martedì DeSantis ha annunciato di voler tagliare i fondi statali, come prevedeva del resto il documento programmatico del Manhattan Institute. Ed è forse il solo aspetto di questa vicenda da stare a guardare con curiosità. Da anni sociologi, studiosi e analisti che spesso non hanno niente da spartire con le idee politiche di DeSantis e Rufo hanno osservato come i vari centri preposti alla Dei hanno ampliato via via il loro raggio d’azione, la loro consistenza e la loro invasività, trasformandosi in centri di haute surveillance paternalistico-pastorale dediti al micromanagement degli studenti e del personale, a una sfiancante e pedante ortopedia linguistica, alla codificazione di galatei inclusivi validi anche per i contesti informali, all’adozione di prassi infantilizzanti da counseling psicoterapeutico.
Ha detto Kafka che quando una rivoluzione evapora non resta che il limo di una nuova burocrazia. Le mode accademiche, per quanto chiassose, hanno corso breve, e allontanandosi si lasciano dietro una scia sempre più flebile di buone o cattive idee e soprattutto di gerghi inquinanti. Chi se le ricorderà, tra qualche anno o lustro, la queer theory e l’intersezionalità? Ma le burocrazie ideologizzate restano. E se è vero, come ha scritto Konstantin Kisin, il comico e opinionista russo-britannico che conduce con Francis Foster il prezioso podcast “Triggernometry”, che il futuro non è woke né anti woke ma post woke, la cosa più lungimirante è occuparsi del dopo, di quel che rimarrà. Ma è ahimè fin troppo facile pronosticare che ci attendono altri anni di salti sempre più grotteschi dalla padella alla brace, dalla brace alla padella. Altro modo per dire che siamo fritti.