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Il Bi e il Ba

L'impotenza delle macchine pensanti

Guido Vitiello

Come gli uomini, anche loro sono spinte dalla sete di potere, o almeno così vengono solitamente rappresentate. Ma un pensiero di Prezzolini, datato 1965, può essere utile per capire perché gli algoritmi non conquisteranno mai il mondo 

Nei grandi film di fantascienza – da “2001: Odissea nello spazio” a “Terminator”, per tacer di altri mille – le creature robotiche e le intelligenze artificiali sono di solito mosse da un unico imperativo: accrescere illimitatamente la propria potenza, a dispetto di qualunque remora sentimentale. Ho sempre avvertito qualcosa di stonato in queste fantasie. Se c’è una passione indubbiamente umana, infatti, questa è la sete di potere. Perché mai le macchine dovrebbero esser prive di tutte le spinte interiori degli uomini salvo che d’una?

La domanda mi è tornata in mente leggendo, sulla newsletter settimanale di Alberto Mingardi (“Un sabato, un libro”), la recensione al volume “Why Machines Will Never Rule the World”. Gli autori, Landgrebe e Smith, sostengono che le macchine non penseranno mai come noi e non punteranno a governare il mondo. Le loro argomentazioni sono molto tecniche, o comunque troppo tecniche per me, ma ero arrivato a conclusioni simili seguendo un’altra via, che parte non già dalla brama di potere ma, al contrario, dal sentimento di impotenza. A farmi da guida è stato un pensiero di Prezzolini, datato 1965 e raccolto nell’“Ideario”: “Crederò che le macchine pensanti pensano come gli uomini quando saprò che qualcuna ha distrutto sé stessa perché stanca di essere macchina, e di sentirsi ‘sola’ nell’universo”.