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Leggere Arthur Miller per capire come recitano i presidenti americani

Guido Vitiello

“I presidenti americani e l’arte di recitare” è una lettura indispensabile dopo il dibattito tra Biden e Trump. Il segreto sta nel calarsi in un personaggio che può essere anche molto diverso da sé, ma che deve nondimeno suonare autentico

Mai come in questi giorni suona vera la battuta di Arthur Miller: “La stampa americana è costituita di critici teatrali travestiti”. Il discorso da cui l’ho tratta, “I presidenti americani e l’arte di recitare” (pronunciato nel 2004 e poi raccolto in un volumetto), è una lettura indispensabile dopo il dibattito tra Biden e Trump. Diceva Miller che ogni candidato, applicando metodi non troppo diversi dallo Stanislavskij, deve calarsi in un “personaggio presidenziale” che può essere anche molto diverso da sé, ma che deve nondimeno suonare autentico. Non tutti sono stati all’altezza del compito. Al Gore ha provato diversi ruoli, ma in tutti è apparso goffo. Eisenhower era un attore inferiore ai suoi talenti: uomo sofisticato, in pubblico annaspava e pasticciava con l’inglese. Reagan era al contrario così attore (non foss’altro per deformazione professionale) che non coglievi mai lo iato tra la persona e il personaggio. Lo stesso avveniva con Roosevelt, ma per la via inversa: sembrava così poco attoriale da farti sospettare che la sua naturalezza celasse dell’arte teatrale. Perfino Bush jr., “còlto spesso a ingarbugliarsi con la sintassi, scalfendo così l’immagine di controllo virile”, una volta diventato presidente sembrava Clint Eastwood. Peccato che Miller, già allora novantenne, si sia perso le tappe successive. Chissà cosa avrebbe detto del divo Obama o del meme Trump. E chissà come avrebbe commentato la scena inedita dell’attore Biden che – come in “Persona” di Bergman – di colpo si smarrisce sotto i riflettori e non sa più calarsi nel personaggio.

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