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"Introduzione alla realtà" di Camurri non si fa recensire, ma si può invogliare a leggerlo

Guido Vitiello

Un romanzo filosofico di una prodigalità spericolata, al tempo stesso cosmico e molto torinese. Non di formazione, come la "Fenomenologia dello spirito", ma d'iniziazione. La differenza non è da poco

Consideriamo anzitutto i generi letterari. A Tubinga, Hegel legge l’“Emilio” di Rousseau e concepisce la sua “Fenomenologia dello spirito” come un romanzo di formazione, la storia della coscienza che si eleva al sapere assoluto. Due secoli dopo, Edoardo Camurri riprende la stessa trama, ma stavolta come romanzo d’iniziazione. La differenza non è da poco. Il Bildungsroman è un apprendistato al vivere in società, e culmina con l’accomodarsi bene o male al mondo; al contrario, il romanzo d’iniziazione – di cui il Novecento ha scalato grandi vette, dalla “Montagna incantata” al “Monte Analogo” – è un’impresa insocievole, selvatica, che porta semmai a uscire dal mondo, o quanto meno a divincolarsi dalla fattura maligna della cosiddetta “realtà” (parola dalla quale non bisogna lasciarsi ipnotizzare, raccomandava Elémire Zolla citandone l’etimologia latina: “reale” non è che l’oggetto su cui si concentra un’assemblea deliberativa, è la res della res publica). Capirete bene che questa “Introduzione alla Realtà” di Camurri non è un libro che si possa recensire nel senso ordinario o spiegare in poche parole. Si può, in compenso, invogliare a leggerlo. Dicendo, per esempio, che è un romanzo filosofico di una prodigalità spericolata, al tempo stesso cosmico e torinesissimo (l’India assume sempre una strana domestica grazia, avvistata dal Piemonte); e che è uscito sì per Timeo, ma rimaneggiando un paio di frasi avrebbe potuto tranquillamente pubblicarlo l’editore Formiggini negli anni Venti del secolo scorso, tra Giuseppe Rensi e Carlo Formichi.

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