Michela Murgia nel murales di Laika a Roma (LaPresse) 

il bi e il ba

L'inaugurazione delle Olimpiadi e l'eredità di Michela Murgia

Guido Vitiello

Voglio ricordarla come la scrittrice che ha tentato di portare il cattolicesimo italiano nella fase che Valerio Aprea, in un’indimenticabile tirata di “Boris”, chiamava la locura. E lo considero uno dei suoi meriti, non certo una delle sue mancanze

Un anno fa, quando morì Michela Murgia, commisi l’inescusabile imprudenza di infilarmi in una di quelle nervose polemiche agostane che sono, come si sa, inutili spargimenti di sangue e d’inchiostro. Si discuteva se si potesse chiamarla “intellettuale” – non nel senso descrittivo, contrapposto a manovale, ma con un accento celebrativo (come nell’“abbiamo perso un poeta” dell’orazione funebre di Moravia per Pasolini). E io, che in tutta onestà non riuscivo ad associare al nome di Murgia un’idea forte e caratterizzante, pensai che la definizione data dalla stampa estera – “scrittrice e attivista” – fosse in fin dei conti la più corretta.

   

Oggi mi taglierei le mani prima di cacciarmi in un dibattito del genere, che prevedibilmente prese subito una piega spiacevole e incarognita. Ma se ne riparlo oggi, al di là della coincidenza dell’anniversario, è perché tutto l’affare mi è tornato in mente proprio qualche giorno fa, all’inaugurazione delle Olimpiadi, davanti al Cristo-Dioniso della famigerata “Ultima cena” queer e sincretistica. Ecco, mi sono detto, forse a Michela Murgia quel tableau vivant sarebbe piaciuto; e non in chiave blasfema, ma al contrario per accoglierlo nelle ampie maglie dell’ortodossia. Se davvero è lecito ricordarla come ci pare (un’autorizzazione che certi custodi della sua memoria tendono a volte a dimenticarsi), io voglio ricordarla così: come la scrittrice che ha tentato di portare il cattolicesimo italiano nella fase che Valerio Aprea, in un’indimenticabile tirata di “Boris”, chiamava la locura, ossia la tradizione unita a “una strana, colorata, luccicante frociaggine” (e ancora Bergoglio non aveva aperto bocca).

 

Non so se possa definirsi un contributo originalissimo – aspirazioni del genere si agitavano già sessant’anni fa nel “dissenso” postconciliare – ma qualcosa di unico e distintivo senz’altro c’è: una rilettura tutta mediterranea del queer, che nella sua vita e nella sua morte pubblica (un congedo che resta per me, lo dico senz’ombra di ironia, la sua opera d’arte più memorabile) era cosa ben più palpitante della scolastica frigida e grottesca elaborata nei campus americani, e ricordava semmai la prima stagione, quella freudo-marxista ed esistenziale degli anni Sessanta e Settanta, che ebbe in Italia per campione – così diverso da lei – Mario Mieli. Dubito che i chierichetti della queer theory d’Oltreoceano darebbero la loro benedizione a questa eresia locale soffusa di dionisismo cristiano; ma lo considero uno dei meriti di Michela Murgia, non certo una delle sue mancanze.

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