Foto di Edoardo Bortoli su Unsplash 

il bi e il ba

La ribalta dei liberali

Guido Vitiello

Ora che contano meno del due di briscola se ne parla sempre e sempre parlano loro. Per insultarsi raddoppiano la b e si danno dei "libberali": c'entra la fonetica capitolina e l'apparir cialtroni dei romani visti da nord 

Non ho mai sentito parlar tanto di liberali come da quando i liberali contano meno del due di briscola. E non solo da parte dei loro nemici di sempre, che in questa stracca replica della febbre intellettuale entre-deux-guerres addebitano loro all’incirca tutti i mali dell’Italia e del mondo (insuperabili, in questo, gli accademici neomarxisti in perenne lotta contro un “neoliberismo” tutto scolastico e libresco). A parlarne, e quanto ferocemente, sono anche i liberali stessi, che passano le giornate a lanciarsi a vicenda epiteti sarcastici sui social network.

Non starò qui a sciorinarli – del resto, non sono neppure così fantasiosi. Mi limito a rilevare un espediente comune: il raddoppio della b. Il liberale che non ci piace è sempre un “libberale”. Come mai? Questa forma era diffusa nell’Ottocento in diversi dialetti, meridionali e non, ma è fin troppo evidente che qui il modello è la fonetica romanesca. Il “libberale” è invariabilmente un po’ cialtrone, come lo sono i romani visti dal nord. Ma il “libberale”, ad affinar l’orecchio, è anche un romano visto da un altro romano: dal papalino che deride con rassegnato cinismo i velleitarismi dei giacobini, “li ggiacubbini” dei sonetti del Belli. E in effetti questa connotazione si confà meglio alle nostre polemiche postume, alle quali si potrebbe adattare la chiusa di un sonetto che il poeta dialettale minore Augusto Marini – lui sì liberale e anticlericale – scrisse nel 1884, a battaglia finita: “Ma mo’ che a libberali stamo corti / E che de vivi semo quasi a zero / s’aripasseno l’ossi de li morti”.