il bi e il ba
Alla Biennale, la dissertazione sull'arte è indistinguibile dalla vanvera intersezionale
Di un’installazione è detto che “infrange i concetti del patriarcato imperiale”, di un’altra che invita a concepire le migrazioni interne “come rottura del binarismo eterosessuale”. Ma tanto l'ideologia woke notoriamente non esiste
Il mio amico architetto Francesco Napolitano, che non si perde una Biennale da quand’era studente, mi fa sapere che quest’anno ai Giardini s’incontrano per lo più opere sciatte e modeste, accompagnate, quasi sovrastate, da didascalie pompose. Non che sia inedita, questa sproporzione tra l’insignificanza dell’opera e la prosopopea del discorso secondario sull’opera – già Jean Clair aveva paragonato l’arte contemporanea alla fisica, che impiega macchinari sempre più imponenti per osservare particelle sempre più infinitesimali – ma stavolta, questa è la novità, la dissertazione sull’arte è indistinguibile da certa vanvera intersezionale che prolifera nel dibattito pubblico. Di un’installazione è detto che “infrange i concetti del patriarcato imperiale” e che “evoca incarnazioni di una specie non binaria nel segno della diversità di genere” e del “postumano queer”; di un’altra, che “affronta i processi migratori transnazionali nel contesto del neoliberismo egemonico”, e che invita a concepire le migrazioni interne “come rottura del binarismo eterosessuale”, riunendo “le alleanze tra l’attivismo che critica il capitalismo e i movimenti LGBTQ+ emersi a livello globale”. Ne traggo due considerazioni. La prima è che l’ideologia woke, come sanno tutte le persone ammodo, notoriamente non esiste. La seconda è che bisogna uscire dai Giardini e capovolgere i termini della questione: il problema non sono gli artisti che, come diceva Montale, amano attaccare all’opera “il cartellino segnaletico delle loro intenzioni”; il problema è che siamo infestati da una chiacchiera ideologica ormai indistinguibile dal linguaggio esoterico dell’arte contemporanea.