Unsplash

il bi e il ba

Quanto è irritante lo slogan "Words are violence"

Guido Vitiello

Così si accorcia irragionevolmente la distanza tra il dire e il fare (di qui gli allarmi sullo hate speech), con conseguenze politico-legislative illiberali

Uno degli slogan più irritanti in circolazione è words are violence. Ha una lunga storia accademica, che nella forma attuale si può far rimontare ai primi anni Novanta (uno dei testi fondativi della Critical race theory si intitola Words that wound), ma sbaglieremmo a considerarlo solo un altro virus intellettuale scappato dai laboratori dei campus. Lo slogan è tre volte irritante. È irritante perché si fonda su premesse ideologiche aberranti, che accorciano irragionevolmente la distanza tra il dire e il fare (di qui gli allarmi sullo hate speech), con conseguenze politico-legislative illiberali. Ma è irritante anche perché ha un fondamento di verità: nelle culture prevalentemente orali, le comunicazioni verbali hanno un carattere agonistico che la civiltà della scrittura ha addomesticato, e le parole sono effettivamente a un millimetro dall’azione. L’immediatezza del botta e risposta, che la distanza della scrittura permette di stemperare, favorisce i cosiddetti flame: chi è istantaneamente offeso da una parola tende a pensare che quella parola sia in sé violenta, e a reagire di conseguenza. La domanda da farsi è: siamo, come diceva McLuhan, una civiltà fondata sull’oralità elettronica? La comunicazione sui social network è scrittura oppure (come credo) oralità trascritta? Spesso si ricorda che dabar, nell’ebraico biblico, significa insieme parola e azione, parola ed evento: ebbene, sui social facciamo chiacchiere da bar o chiacchiere dabar? Il guaio è che – salvo che mi sia perso qualcosa: lettori, aiutatemi! – la riflessione sul tema trascura del tutto questo versante mediologico, mentre innalza improbabili catafalchi teorici sulla violenza simbolica e il colonialismo sistemico. E questa è la mia terza ragione di irritazione.

Di più su questi argomenti: