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Delmastro non dovrebbe fare l'esperienza del carcerato, ma quella del carceriere

Guido Vitiello

Colmare la distanza tra il sadismo astratto del benpensante e i gesti concreti compiuti su detenuti in carne e ossa. Così il sottosegretario vedrà se gli danno ancora un’“intima gioia”

Non è per fare pubblicità alla concorrenza, ma se avessi un biplano oggi volerei su tutta la penisola per distribuire alla popolazione un articolo esemplare che il radicale Sergio D’Elia ha scritto per l’Unità, intitolato L’ideologia del sadismo. Le parole oscene del sottosegretario Delmastro sull’“intima gioia” che prova nel veder togliere il respiro ai sepolti vivi del 41 bis sono il pretesto per mostrare come il fine costituzionale della pena sia irrimediabilmente pregiudicato dai suoi mezzi, ossia dall’istituzione stessa del carcere. La schiavitù, scrive D’Elia, fu abolita quando divenne intollerabile tanto per gli schiavi quanto per gli schiavisti, la tortura quando fu insopportabile non solo per i torturati ma anche per i torturatori, e lo stesso sarà presto o tardi delle prigioni. E’ il loro destino segnato. Nel frattempo, il segretario di Nessuno tocchi Caino invita il sottosegretario alla Giustizia a visitare i carcerati per constatare con i propri occhi l’insensatezza, l’invivibilità, l’inutile dolore generato ventiquattr’ore su ventiquattro da una macchina che non sa produrre altro. E’ giusto, ma io dico che non basta. A costo di passare per un sadico di secondo grado, suggerisco che Delmastro dovrebbe fare non l’esperienza della dama di carità istituzionale, e nemmeno – per ispirarci alla filosofia del disegno di legge Sciascia-Tortora – quella del carcerato. Dovrebbe fare l’esperienza del carceriere. Colmare la distanza tra il sadismo astratto del benpensante e dei gesti concreti compiuti su detenuti in carne e ossa. Così vedrà se gli danno ancora un’“intima gioia” o se invece lo gettano, come tanti agenti penitenziari, in un’intima disperazione.

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