Padri
Le pallonate dentro casa, il disordine dei figli
Così è la vita di casa mia, e io voglio viverla
Non sono un bravo papà. Non nel senso che intendete voi, almeno. Per farmi ubbidire devo ripetere almeno tre o quattro volte lo stesso concetto. Per dire: a me piace avere la casa ordinata, invece il mio appartamento somiglia sempre a un campo di battaglia. Cerco di rifare letti, sciacquare tazze, riporre cappotti negli armadi, ma è tutto inutile. Fossi davvero il comandante della nave, in casa avremmo già fatto naufragio da un pezzo. Invece il timone lo tiene saldo mia moglie Chiara, anche quando credo di manovrare io. Me ne sono fatto una ragione. Lei dice una parola e i nostri figli maschi (undici e quindici anni) eseguono. Ordina di spegnere la televisione e loro la spengono. Invita ad apparecchiare la tavola e loro apparecchiano, intima di rimettere in ordine i quaderni e loro rifanno le cartelle… Se lo faccio io, qualsiasi tono assuma, a meno che non sia quello sfigurato di una belva, non ottengo niente. Inoltre per quasi un anno sono dovuto entrare e uscire dall’Istituto dei tumori e questo, diciamo, non ha aiutato la mia leadership. Però mi ha aiutato a capire una cosa: che dovevo cambiare.
Un piccolo passo è stato compiuto un giorno che sono rientrato a casa spossato dopo una chemio. I ragazzi si erano impegnati a fare un gran disordine, i letti disfatti, i calzini sul pavimento, le magliette gettate sui divani. Dovevano essersi inseguiti tirandosi cuscinate e ululando fino alla molestia, mentre io affrontavo l’ignoto “dell’iniettorato”, ovvero lo stanzone in ospedale dove ti iniettano le chemioterapie. E dove, in generale, sono tutti molto tristi e silenziosi. E’ in questo luogo di solitudini e sofferenza, che nel mio lungo anno di angosce mi sono sentito cambiare in profondità. Nella mia testa mi racconto che comprendere profondamente la caducità della vita mi ha spinto ad accettare più serenamente le sue avversità. Mi dico che sì, certo, sono diverso, più tollerante, gentile, empatico. Mi sento migliore. Ma esiste una prova del mio cambiamento? Davvero meditare ogni mattina e poi respirare a lungo mi ha reso migliore di prima? Obiettivamente, dal nervoso che mi prende vedendo il casino di casa mia, non si direbbe. Mi guardo intorno e sento che mi è montata una rabbia sorda, l’offesa per quella mancanza di rispetto per me e la mia malattia. Sono entrato in camera da letto e ho sbattuto la porta alle mie spalle, gridando qualcosa mentre in casa calava il silenzio. Ma poi, fermandomi a respirare, finalmente ho capito: sarei stato più contento se tutto fosse stato in ordine e asettico, magari senza bambini in giro? Starei meglio senza di loro che mi fanno ridere e m’impegnano e, nonostante tutto, mi fanno sentire un papà come gli altri, con le loro storie, i compiti, gli appuntamenti sportivi? Davvero mi sarei sentito più tranquillo con il silenzio in casa che si deve ai moribondi e la solitudine degli abbandonati? Più a mio agio se le cose fossero state al loro posto, i letti rifatti perfettamente e magari la macchina della flebo pronta vicino al letto? O sarei stato solo ordinatamente più triste?
Invece questa è la vita della mia casa. La Vita, non la morte delle flebo al braccio, degli sguardi spenti e inondati di lacrime, dell’ordine funeralizio che si osserva per i sofferenti gravi. E io voglio vivere, vivere. Sono uscito in fretta dalla camera per chiedere scusa. “Vi voglio così, incasinati, allegri. Guai se non avessi trovato il vostro disordine, sarebbe stato come non trovare voi! Viva il disordine – ho gridato – insomma… ecco, non esageriamo, eh?”. Mi hanno guardato strano. Mai e poi mai avrei pensato di urlare in vita mia “viva il disordine”. Leo, il più sfacciato, ha preso la parola per tutti facendo la caricatura del bravo bambino un po’ carogna: “Mamma, mamma, papà è impazzito!”. Mia moglie ha giocato di rimessa: “E’ la cura ragazzi, non preoccupatevi”. Vibol, il più piccolo, ha lanciato un grido gutturale e tirato un calcio alla palla di cuoio, gesto di solito vietatissimo, sfiorando una lampada e colpendo un armadio. Li amo. Sì lo so, ho il cuore di panna. Ordine e disciplina: so benissimo come si dovrebbe riconquistare il ruolo perduto e antico di “pater familias”. Dov’è finito quel padre normativo, carismatico, sicuro di sé, irradiante certezze che tutte le sociologhe e gli psicologi del mondo rivendicano dalle pagine dei giornali? Non ne ho idea, come credo non lo sapesse nemmeno mio padre e il padre di mio padre e così via nei secoli dei secoli (i padri delle mogli, invece, sembra siano di solito più consapevoli…). Frego la palla ai piedi di mio figlio e inizio a giocare. Sì lo so, sono un pessimo padre. Mia moglie sorride, l’altro figlio si mette a suonare. E io già mi sento guarire.
Paolo Colonnello è giornalista. “Il senso del tumore per la vita” (Centauro edizioni) è adesso in libreria