Illustrazione di Rita Petruccioli per “Romeo e Giulietta e altre storie” di Charles e Mary Lamb (Mondadori Ragazzi)

L'amore giovane

Nadia Terranova

Il posto dell’ultimogenita in una famiglia già pronta: mia nonna e l’inizio della mia intera esistenza

E’ il primo ricordo della mia vita: sono a pancia in su dentro un lettino apparecchiato ai piedi del lettone dei miei nonni, guardo il soffitto e qualcuno mi ha messo addosso una coperta azzurra. Di là sento voci e tramestio, mia madre saluta, ride ma è agitata, è in partenza per l’estero, ha vinto una borsa di studio in un’università prestigiosa, è molto brava, non ha neppure ventiquattro anni. Ha anche una figlia piccola, ma a un’occasione del genere non si può rinunciare anche se è doloroso, bisogna prendere coraggio, lasciarla ai nonni e partire. Mentre i miei genitori veri scoprivano come tirare su quella bambina piombata nelle loro vite, Barbara e Giuseppe di picciriddi ne avevano già cresciuti sei, e quattro di loro li tenevano ancora dentro casa: che altro potevo fare, io che non avevo fratelli né sorelle, se non accaparrarmi il mio posto dentro quella famiglia già pronta, il posto dell’ultimogenita.

Di mestiere i miei nonni facevano la maestra e il direttore didattico, perciò nessuno era più esperto d’infanzia di loro, anche se erano venuti su in un’epoca in cui l’infanzia non era ancora stata inventata. Mio nonno era minorenne quando aveva ricevuto brutalmente la notizia della morte accidentale del padre, era diventato grande in un istante e si era industriato a mantenere una vedova e due fratelli minori; mia nonna da bambina aveva avuto dentro casa la malattia e la depressione di una madre quasi muta, però ogni giorno si metteva il grembiule, prendeva la cartella e tornava da scuola con il quaderno pieno di dieci e lode. Lui aveva un caratteraccio, lei era mite fino allo stremo; lui era volubile e plateale, lei governava il mondo facendo finta di non interessarsene. Figli della borghesia insulare, Barbara e Giuseppe si erano ostinati entrambi a studiare di più e meglio dei fratelli, sentendo, ciascuno a proprio modo, che senza cultura sarebbero stati più infelici, con una determinazione a brillare che nascondeva bozzoli di vanità e si svelava vestita di soddisfazione in lui e di ritrosia in lei. Poi si erano incontrati e si erano sposati, quando lui aveva già vissuto molte vite e lei pensava di averne davanti una soltanto. Trent’anni, sei figli e due traslochi dopo, si erano trasformati in due signori di mezza età che comunicavano ancora con i codici rumorosi dell’amore giovane, fatto di urla e litigi furiosi, e poi chiudevano a chiave la stanza da letto per fare pace da soli, lasciando tutti quei figli fuori dalla porta.

  

A ripensarci oggi, ritrovarsi una nuova e non biologica ultimogenita piazzata in stanza, nel bel mezzo del loro universo privato, non deve averli fatti saltare di gioia. Io invece non stavo in me dalla felicità, del tutto a mio agio con due finti genitori più adulti dei miei, al punto che la mia memoria ha individuato quel momento come l’inizio della mia intera esistenza. Barbara e Giuseppe, intanto, rimettevano in funzione culle appena riposte e tiravano fuori da sotto le lenzuola di flanella le istruzioni per l’uso per una bambina: sapevano tutto, sapevano come si fa la vita e come si risolve, sapevano suscitare risate e asciugare lacrime, e qualche volta l’inverso. Barbara sapeva cucire addosso a un bambolotto un prendisole giallo a pois e dalla stessa stoffa ricavarne uno per la nipote e un altro per lei stessa. In un pomeriggio d’estate ricordo tre sagome di colore uguale: mia nonna, io e una bruttissima bambola di plastica vestite nella stessa maniera. Giuseppe sapeva portare una figlia aggiuntiva in macchina a prendere un gelato e conosceva quel chilometro della litoranea dove abbassando i finestrini l’aria smette di essere cittadina e diventa di sale, lì bisognava tirar giù tutto e respirare e basta. Infine, quando erano stanchi di giocare ai genitori, un gioco che avevano fatto già sei volte prima di me, mi abbandonavano davanti alle gabbie dei canarini per poi venire a riprendermi perché ero crollata dal sonno per terra, in corridoio, coi vestiti ancora addosso, abbracciata a un orso spelacchiato. Se erano loro ad addormentarsi saltavo davanti alla televisione accanto allo zio più piccolo, che aveva sedici anni e mi scansava dicendo che i bambini puzzavano. Subivo i suoi dispetti con gioioso masochismo: finalmente avevo anche io un fratello crudele come quelli dei libri o dei cartoni.

Poi mia madre tornò in Italia, i miei si separarono, una delle zie bambine con cui avevo diviso la casa morì e la famiglia invecchiò di colpo. Non eravamo più tutti troppo piccoli da qualsiasi altezza ci guardassimo. La mia infanzia, che aveva coinciso con l’infanzia di tutti, era finita; il lutto ci aveva reso grandi e grotteschi, anche me che non andavo ancora a scuola. A Barbara e Giuseppe spuntarono capelli bianchi e vestiti neri, smisero di parlare e, mi sembrò, anche di volersi bene. I miei genitori giovanissimi e imperfetti tornarono a essere gli unici possibili, almeno per qualche anno. Non c’erano più canarini né bambole fotocopia né orsi spelacchiati a intralciare il corridoio, e nessuno chiudeva mai la porta per fare pace. Solo la coperta azzurra, con l’ostinazione polverosa delle cose che non vogliono saperne di morire, restava a ricordarmi l’inizio e la fine di un’epoca. 

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