Ma quando i figli diventano grandi, continuano a essere figli?
Ora siamo tutti adulti intorno al tavolo, e non lancerò più in aria i miei bambini per riafferrarli al volo
Ma quando i figli crescono e diventano grandi, continuano a essere figli? Figli di chi? In che modo il legame resiste al di là del fatto anagrafico e legale? E in che modo quello affettivo si trasforma? Me lo chiedevo durante le ultime feste, constatando con una punta di rammarico che accanto a quell’albero addobbato e intorno a quel tavolo, a cena, non c’erano più veri e propri anziani, del tipo che si vede sorridente con gli occhialetti cerchiati di metallo nella pubblicità del pandoro (il più avanti con l’età sono io, sessantenne) ma nemmeno bambini, cioè, nipoti. Eravamo tutti adulti, sì, adulti, chi un po’ più giovane chi decisamente più vecchio. Ma adulti. I miei figli sono grandi, uomini e donne, ed è parecchio tempo che non ne prendo uno in braccio. L’ho fatto l’ultima volta per gioco in un video, cantando la ninna-nanna e cullando tra le mie braccia un omone barbuto alto un metro e novanta che mi sovrastava. “Dormi, dormi… piccolino…”. Era una scenetta ironica e struggente al tempo stesso, un epicedio, un ovvio congedo. O forse un risarcimento goffo e tardivo. E allora mi chiedo se l’ansia invincibile (dove sono adesso? cosa fanno? sono felici o non sono felici? il loro amore è corrisposto? come stanno messi a quattrini?) che nutro nei loro confronti, persino maggiore oggi di ieri, sia in fondo di segno diverso da quella che provo nei confronti di chiunque mi sta a cuore, parente o amore o amico.
E’ solo una trepidazione un po’ più forte, un po’ più intensa? E la telefonata che ogni tanto qualcuno di loro mi fa, o il cuoricino che mi invia, ha qualcosa di peculiare e unico per il fatto che io sia il loro padre o si riconfonde nell’oceano delle relazioni umane e nell’intreccio vasto e libero delle comunicazioni? Il vincolo speciale, qual è? A tali retoriche domande qualcuno mi ha risposto che questi dubbi possono venire soltanto a un uomo, cioè, a un maschio, a un padre; che il legame materno di sicuro si attenua con il venir meno delle necessità di accudimento diretto, però non cessa mai o non muta mai di stato. E questo sarebbero per primi i figli a sentirlo. La loro emancipazione non è mai un distacco anche quando si esprime in modalità clamorose o drammatiche. Il debito (o il risentimento) per l’essere stati messi al mondo ha una qualità viscerale che non verrà cancellata dalla vita adulta, lacerata sì, ma non rimossa. Lo squilibrio permane. Una conversazione con la propria madre non si svolgerà mai tra pari effettivi. E questa tensione per così dire pre-emotiva, pre-linguistica, pre-umana, pre-tuttoquanto, fa sì che si resti figli della propria madre, e madre del proprio figlio o figlia, per l’eternità. Può darsi. Non lo escludo affatto. Ma nemmeno mi convince appieno, questa teoria asciutta e apodittica. Più modesta sebbene più mesta, un’altra teoria di stampo tradizionale prova a spiegare come verrà restaurato il rapporto grazie a un rovesciamento, il quale, come spesso accade, finisce per ristabilire esattamente ciò che ha capovolto.
Dice questa fin troppo saggia teoria che è vero, c’è un periodo di latenza e può durare se dio vuole anche decenni, quando i figli vanno nel mondo per conto loro e i genitori ancora ci stanno, in quel mondo, a pieno titolo. Gli uni hanno guadagnato la loro indipendenza gli altri l’hanno riconquistata. Nessuno in verità spodesta nessuno e la distanza non occorre a ogni costo colmarla: tra individui sovrani possono infatti mantenersi rapporti caldi o freddi, tempestosi o sereni o pressoché inesistenti, non importa. Ma arriverà il momento in cui l’accudimento si ripresenterà appunto in forma simmetricamente rovesciata, cioè quando toccherà ai figli prendersi cura dei genitori vecchi e malati. Sotto forma di pietà o devozione amorosa o puro e semplice dovere, il rapporto filiale verrà di nuovo riconosciuto come tale, in forma privata e pubblica, e con questo rinsaldato. Certo, rispetto a lanciare i propri bambini in aria e riafferrarli al volo mentre gridano di piacere e spavento, il rinnovato legame che prende avvio dal declino di una delle parti ha ben poco di festoso. E vede tagliato fuori l’elemento che da solo è capace di infondere grazia a ogni gesto: la giovinezza. Ma non vi è nulla in effetti che somigli a un reciproco riconoscersi come lo sguardo incrociato con un genitore privo di forze e indifeso. (Be’, non è che io smanii perché questa nuova epoca abbia inizio).