La sproporzione
Un dolore molto prossimo alla gioia: inseguirsi per le scale e lavare i piatti offesa per niente
Quella volta mia madre mi ha inseguito su per le scale e io ho chiuso la porta con forza per non farla entrare, lei ha sbattuto il ginocchio contro la porta e si è seduta, anzi accasciata per terra, e piangeva per la botta e per lo stupore: sua figlia adolescente le aveva tirato una porta addosso. Così io alla paura dovevo aggiungere il senso di colpa di avere forse rotto un ginocchio a mia madre mentre fuggivo per qualcosa di terribile che avevo fatto o più probabilmente detto: e invece mi veniva da ridere, sempre con le lacrime agli occhi perché comunque il suo ginocchio si stava gonfiando, ma non riuscivo a smettere e alla fine rideva anche mia madre, piangendo, con questo ginocchio ormai enorme fra le mani e il ghiaccio dentro lo strofinaccio per i piatti portato da mia nonna che scuoteva la testa e borbottava e però aveva anche lei una smorfia come un sorriso ricacciato indietro. Guardavo queste due madri, una con il ghiaccio e l’altra con il ginocchio in mano, e vedevo il canale ridottissimo che ci imprigionava e univa, con la rabbia bollente ma sempre limpida che scorre ostinata (e che con mia madre non si è mai esaurita, ma a volte si ferma, si inabissa perfino, poi ricomincia a gorgogliare piano, e basta una frase e diventa una cascata di lava e poi di nuovo un laghetto per anatre).
E mi ricordo che ho pianto anche quella volta (piangevo sempre, ma solo a casa, fuori mai), ma non per il ginocchio o per la sberla scampata, soprattutto non per il senso di colpa, perché da quel giorno il senso di colpa verso esseri umani adulti, e per adulti intendo forti, capaci di reagire alla vita, non l’ho avuto mai più. Ho pianto perché ho sentito in modo infantile e confuso la forza magnetica di un’unione, di un inseguimento perenne, di una competizione amorosa e bruciante. Una scia luminosa, un dolore molto prossimo alla gioia. Come quando andavo a prendere mia figlia a scuola, ed era più piccola di adesso: mi correva incontro con un grandioso sorriso sdentato e con una tale gioia, perché in quel periodo non andavo mai a prenderla da nessuna parte, che quella sproporzione, quella sfrenatezza della gioia era anche un dolore. L’ha scritto Yasmina Reza in un frammento: la sproporzione della gioia è un dolore. Così quel dolore al ginocchio, noi tre ammucchiate per terra fra la porta e le scale, il ghiaccio e le lacrime e il racconto fatto da mia madre a mia nonna di me che “correvo come una furia” (correvo come una furia perché lei mi inseguiva come una furia e non avevo intenzione di farmi prendere mai, correvo come una furia perché lei era una furia), era tutto così sproporzionato e scompigliato e sciocco che era anche una gioia. Intuivo allora a piccoli lampi, guardando mia madre e mia nonna e me, guardando mia sorella e mia zia, tutte sedute insieme al tavolo allungato al massimo (le più piccole avevano il dovere di stare nel posto scomodo con la gamba del tavolo che sbatte sulle ginocchia), che ci capivamo o ci fraintendevamo totalmente con un’occhiata, e mia madre che controllava l’umore di mia nonna, e io che controllavo quello di mia madre, che eravamo una storia ma ognuna di noi ne avrebbe avuto soltanto una parte, un pezzetto.
La sua versione, sulla quale camminare e dalla quale fuggire. Una lunga catena di donne, un po’ furie, un po’ lacrimose e un po’ allegre, dentro infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, vecchiaia, tutte credo ugualmente concentrate nell’affermare se stesse dentro o fuori la fase eroica della propria vita, e nel preoccuparsi delle altre, le madri delle figlie e delle figlie delle figlie, unite dallo stesso modo di bruciare i toast e innervosirsi per niente e preparare le valigie buttandoci dentro i vestiti piegati sempre malissimo, e di far ribollire la lava in un momento. E sempre, a essere madri e figlie e sorelle, a essere legati stretti succede di convincersi di riuscire a leggere nel pensiero, se si fa il gioco che facevo sempre a Natale, quando eravamo tutti insieme, con le nonne, i miei genitori, mia zia, mia sorella ancora bambina, e qualche amico o fidanzato in imbarazzo che veniva radiografato e commentato fino alla fine dell’inverno: facevo finta di essere una telecamera, di non essere davvero lì mentre mia nonna lasciava il rossetto sul bicchiere, l’unica della famiglia capace di mettersi il rossetto, facevo finta di non essere davvero lì mentre mia madre e sua sorella si rintanavano in cucina a dirsi i segreti e mia nonna cambiava faccia per la tensione di mettersi in ascolto.
A un certo punto però litigavamo, per questo tratto di famiglia specializzato in frecciatine e occhiate e permalosità, e io non ero più una telecamera ma ero di nuovo lì e piangevo in modo sempre esagerato. “La crescita”, diceva mia nonna, e si ripassava il rossetto. Poi qualcuno andava al cinema, qualcuno si addormentava sul divano, io non lavavo mai i piatti. In questo Natale li ho lavati io per la prima volta, senza più il rossetto di mia nonna sul bicchiere, e però ancora con la gamba del tavolo che sbatte sulle ginocchia, e una permalosità intatta. E la sproporzione di quel dolore, lavare i piatti offesa per niente, era anche una gioia.