Cinque nonni, cinque categorie filosofiche
La vita che continua nella parmigiana di melanzane
Raccontarsi nei padri spesso è come guardare un quadro troppo vicino: macchie confuse di colori sgargianti. Serve una distanza. Fatta di occhiali da sole, poesie imparate a memoria e scherzi che durano anche dieci anni. Ricordo bene la faccia perplessa delle suore salesiane quando, rispondendo al compito: “I tuoi nonni”, risposi: “Io ho cinque nonni”. Perché non c’erano solo Giuseppe, Giuseppina, Silvano e Nara, ma anche Lidia, la compagna di Silvano. Che rideva percorsa da un vento di gratitudine, come scoprisse il riso per la prima volta, e che fu vegliata negli anni del coma con le canzoni di Villa. “Silvano, devi chiederti perché la tua prima moglie ti ha lasciato, e la seconda, per liberarsi di te, s’è fatta venire un coma” commentò Nara. Quei quattro o cinque sguardi sono le vere categorie filosofiche con cui, in famiglia, leggiamo noi stessi. Il mondo “regolare” del posto fisso, della DC, dei valori tradizionali, calabrese di Giuseppe e Giuseppina, e il guazzabuglio comunista-junghiano, salernitano-casentinese, il Carducci imparato a memoria e il Puccini di Silvano, Nara e Lidia.
Ci pensavo pochi giorni fa, quando ho accompagnato Nara al capezzale della consuocera Peppina, morta nei primi giorni del nuovo anno. Ero lì, in mezzo a loro due, una viva e l’altra morta, ed è stato come voltarsi e ripercorrere con lo sguardo due corsi d’acqua, che alla fine sono sfociati anche in me stesso. Regine di due mondi diversi, che i re avevano lasciato da un pezzo. “Chi ottiene il potere con la violenza” recitavano le parole crociate. Dittatore? “Tua nonna”, proponeva Giuseppe ridendo. Non sapeva che la tiranna sapeva sfoggiare anche un’astuzia perfidamente concreta. Per dieci anni e passa, a ogni compleanno, gli regalava un pigiama. Lui ringraziava e metteva via, con francescana indifferenza, senza capire che si trattava sempre dello stesso, accuratamente incartato. Un’estate Giuseppina non aveva fatto in tempo a indossare un cappellone che lo dimenticò in casa d’una vicina, cui stava morendo il marito d’infarto. Il giorno dopo la vedova lo sfoggiava commossa. “L’ultima cosa che ha fatto, è stata comprarmi questo cappello!”. Giuseppina non disse mai niente, ma ogni volta che la incrociava mi sussurrava: “Quel giorno è morto anche il mio cappello”. Alla gara di dolci aveva pianificato di cospargere di sale le torte delle altre concorrenti, agitando le mani in una profusione di complimenti. Sotto la scorza cattolica, in effetti è sempre stato il kleos, la gloria magno-greca quella che affiorava. “Quando muoio, tu devi fare un discorso, e devono piangere TUTTI”.
Questa del pianto dell’uditorio era la cartina di tornasole dei miei successi di scrittore. Non quanta gente c’era o quanti libri ho venduto, ma: “Piangevano?”. Ho comunque avanzato la mia controparte del qui pro quo. Un’intercessione paganamente familistica. Se esiste il paradiso, lei mi deve tenere un posto occupando la sedia con la borsetta. E’ sempre stato impossibile fargliela togliere, in chiesa o a teatro. Dopo il funerale, con mio fratello e la badante abbiamo insistito perché cenassimo a melanzane alla parmigiana con tutto il clan, vincendo la tendenza calabrese a indossare i panni delle prefiche romane, o a chiudersi in un silenzio fosco. E avevamo ragione. Ho avuto la netta sensazione che mia nonna fosse molto più presente in quel piatto che nella bara sottoterra. Poche ore prima, a guardarla riposare per sempre, l’altra regina, Nara, maestra elementare, poi psicologa – professione che continua a esercitare a novantadue anni– sempre nascosta dietro gli occhiali da sole, la voce arrochita dalle sigarette. Ancora oggi, quando scende in spiaggia per tuffarsi cantando la Marsigliese o Puccini, per una sorta di misterioso, tacito passaparola tra gli ombrelloni serpeggia un: “E’ una psicologa”, e più d’uno attacca bottone: “Sa, ho un amico che…”. E l’Oracolo risponde.
Crescere con lei ha voluto dire sfoggiare una nonna che sapeva truccarsi la faccia come un capo-indiano e regalava libri sulla mitologia indiana. Nietzsche non poteva credere a un Dio che non sapesse danzare. Io non potrei credere a un Dio che non si diverta a entrare nelle inquadrature e a sculettare sullo sfondo, come faceva Giuseppe. Uno che, dovendo dare come Giuseppina una supposta al marito, non si presenti, ridacchiando, con una melanzana in mano. Uno che non sappia, come Silvano, squadrare con fosca sensualità la badante musulmana velata, e mormorare: “Levati codesto barracano”– traduzione piuttosto puntuale del “Cantico dei Cantici”, a pensarci. Qualche tempo fa, passeggiando con Nara, tenendola sempre per mano, “Niente bastone! Al massimo la mano!” – ho detto – “Nessuno si diverte come noi, bella bionda”. “Perché noi VIVIAMO” mi ha risposto lei. Ci ripensavo proprio al funerale. Qualunque cosa ci aspetti (oppure no) al di là dell’ultima soglia, qui, con loro, ho e abbiamo danzato.
Edoardo Rialti è scrittore e traduttore