Meglio morire che ricominciare. Ecco perché non voglio figli
Fra Nanni Moretti, Montaigne e i compiti per le vacanze, Piperno non augura l’infanzia a nessuno
Cara Annalena,
ricordi il finale di “Bianca” di Nanni Moretti? Dopo aver confessato i suoi spaventosi delitti al commissario, Michele Apicella viene caricato sul cellulare della polizia presumibilmente diretto a un carcere di massima sicurezza. Si volta verso i poliziotti in borghese che lo stanno scortando e chiede loro se per caso hanno figli. Alla risposta affermativa di entrambi Apicella, in odore di ergastolo, se ne esce con quella battuta che da ragazzo mi faceva palpitare di commozione, come se custodisse chissà quale presagio di sventura: “E’ brutto morire senza figli”.
Già, è proprio così che dice. E’ brutto morire senza figli. Sebbene la prima volta che vidi “Bianca” (era il 1986, tre anni dopo la sua uscita) io avessi da poco superato la pubertà e la mia verginità fosse ben lungi dall’essere minacciata, la frase mi sembrava di una verità tragica e inoppugnabile. Pochi giorni fa, imbattendomi in “Bianca” su Sky, ho fatto aspettare alcuni amici che mi attendevano per cena, per sentire ancora una volta Michele pronunciarla per me in quel modo inconfondibilmente morettiano. Immagina la mia sorpresa nel constatare che stavolta non mi scaldava il cuore, lasciandomi perplesso e indifferente.
E dire che ormai avrei avuto ogni diritto a sentirmi implicato, parte in causa. Visto che oggi non si tratta più di un semplice presagio, ma di una prassi consolidata. Dopotutto sono più vecchio del Moretti di allora, e sebbene almeno per il momento non gravi alcuna condanna penale sulla mia testa, è probabile che morirò senza figli. Ma ecco che, avendone ormai la ragionevole certezza, tale destino non mi pare più così disgraziato. Semmai trovo brutto morire, ma d’altronde ogni tanto trovo brutto anche vivere. E’ andata così, poteva andare altrimenti ma che posso farci? Ricordo che Moravia diceva sempre che i suoi figli erano i libri che aveva scritto. Potrei dire altrettanto? Bah, Moravia era un uomo di grande talento ma disponeva di un’intelligenza assai limitata.
Il guaio nel non avere figli è che, in una parte molto seriosa di te stesso, senti di non aver compiuto fino in fondo il tuo destino biologico, ammesso che ce ne sia uno. E’ come mancare una tappa nello sviluppo, come quelli che a scuola fanno tre anni in uno. Una sera vai a letto giovane per svegliarti vecchio il giorno dopo. La paternità mancata ti preclude la chance (non so mica se così allettante) di essere adulto. Rimani figlio per tutta la vita; e quando i tuoi genitori vengono meno, invecchi in un secondo, diventando uno di quei patetici malmostosi vegliardi da ospizio che intervistati per strada da qualche inviato de L’aria che tira dicono cose amare, nostalgiche e qualunquiste.
Ciononostante mi ostino a considerarmi renitente alla paternità. Non solo, ma arrivo a dirti che guardandomi intorno vedo parecchi genitori che avrebbero fatto meglio a usare il preservativo quella fatidica volta. Padri che non hanno alcuna stoffa, nessuna vocazione, privi di tatto e magnanimità, autentici cazzoni da batteria. Madri che credevano che i figli avrebbero risolto ogni problema, che in nome di questa sciocchezza hanno mollato carriere floride, e che ora si sentono tradite dai loro stessi sogni incarnati: questi adolescenti musoni, ingrati e rompipalle.
La categoria che proprio non digerisco è quella assai cospicua di genitori fieri, quelli che ti parlano dei loro marmocchi come novelli Einstein, illuminati dalla grazia dell’ironia precoce e di una sensibilità ferita o fin troppo precocemente esacerbata. I padri e le madri che farneticano su Eton, Harvard o l’Mit! Senti i loro peana incongrui rivolti a un grullo qualunque e ancora una volta ti viene in aiuto Nanni Moretti con una delle sue battute più celebri e felici: “Non è il primo figlio del mondo! Non è il primo figlio del mondo!” (“La messa è finita”, 1985). Come a dire: l’universo è pieno di coglioni, perché tuo figlio non potrebbe far parte della categoria?
Non vorrei che fraintendessi, non ce l’ho con i bambini, né con i ragazzi. Anzi, come ti dicevo, il mio problema è che non smetto di essere figlio. Ancora oggi, alla soglia dei quarantacinque anni, con la barba canuta come quella di Ulisse il giorno del suo ritorno a Itaca e la pancia di Arpagone, mi è più facile identificarmi in un bambino che in un adulto. Provo una grande pietà per i miei studenti smarriti. Certe volte, in un empito retorico che non mi fa onore, mi illudo che spiegare loro una poesia di Baudelaire possa schiudere chissà quali orizzonti di piacere e consapevolezza. E’ evidente che non è così. Sarei più onesto se spiegassi loro che l’arte è tutt’al più una pausa corroborante tra una bolletta da pagare e una moglie da compiacere.
Ti racconto questa. L’altro giorno ho accompagnato i miei nipoti a scuola. Lei è alle medie, lui ancora alle elementari. Mi piacciono parecchio. Li trovo divertenti, spiritosi e per niente rompipalle. Mi diverto a metterli in guardia dalla cultura, auspicando per loro un futuro da centravanti o da starlet. Abbasso libri e musei, viva cheeseburger e videogame! Faceva un freddo polare. Erano imbacuccati come eschimesi, per non dire di quelle gigantesche cartelle. Quando li ho mollati lì, intirizziti e perplessi, di fronte all’istituto assediato da mamme, ragazzini e minicar, ho provato un disagio che avevo dimenticato. Non hai idea la pena che mi hanno fatto. In un attimo mi sono ricordato quanto detestassi andare a scuola: levatacce, mattine trascorse ad ascoltare sciocchezze destituite di ogni interesse, sotto la minaccia di umilianti interrogazioni, il compagno prepotente, la bella della classe, il professore frustrato, i brutti voti, le pagelle, i compagni della Fgci, i camerati del Fronte della gioventù, Ippolito Nievo, i compiti per le vacanze, La ragazza di Bube… Che orrore! La scuola è un posto spaventoso, da abolire. Altro che Eton e Harvard. Sogno per i miei nipoti un istitutore come quelli auspicati da Montaigne: gentili, complici, per niente autoritari. Se un genio della lampada mi offrisse l’opportunità di ricominciare da capo, tornare ragazzo, gli direi di non rompere e di togliersi dai piedi. Meglio morire che ricominciare. Allora, cara Annalena, ho capito perché non ho mai voluto figli. E’ che non auguro l’infanzia a nessuno, figurarsi a un figlio.