L'accensione a catena: i geni dei padri si risvegliano nel corpo dei figli
Tu non sei soltanto tu, ma anche chi è venuto prima e chi arriverà poi
Quando un padre muore, i suoi geni si risvegliano nel corpo dei figli. È come in quei film tipo Ghostbusters, Ghost o Alien, in cui un poveraccio viene posseduto e incomincia a comportarsi in modo diverso, però dall’interno, senza cambiare aspetto esteriore. La cosa inquietante – o tranquillizzante, dipende – è che quando muore tuo padre non arriva ad abitarti il fantasma di un estraneo o di una creatura extraterrestre, ma qualcuno che conoscevi bene, meglio di tutti. All’improvviso riconosci il suo piede nel tuo che spunta dall’acqua del bagno, o capisci che quando è a disagio il tuo corpo si contrae come il suo, e che nelle mani, zigomi e naso tuoi rimane una traccia delle mani, zigomi e naso suoi. Non sono uguali, ovvio, anzi, ma è come se da dentro la forma di lui, o la sua assenza, cercasse di modellare la tua presenza. È una sensazione strana, di familiarità ed estraneità, che ti fa capire che tu non sei soltanto tu, ma anche chi è venuto prima e chi arriverà poi. O forse è soltanto autosuggestione e nostalgia, o è l’età del tuo corpo che, ormai, è quella che aveva tuo padre quando eri bambino, o forse è che l’assenza provoca sempre un desiderio da riempire di sensazioni reali. Oppure per davvero i geni di chi non c’è più si accendono in chi resta, perché appena un individuo si dissolve le sue briciole incominciano a scoppiettare dentro le cose che ha fatto da vivo, quindi dentro i suoi figli, e l’individualità è solo un confine che passa.
È un’accensione a catena: all’improvviso riconosci nel modo in cui figlio adolescente sta nel suo corpo, nel modo in cui si contrae se è a disagio e si espande se è felice, nei movimenti delle sue mani, nella forma del collo e dello sguardo, qualcosa del corpo che era tuo alla sua età. Le sue mani ti fanno ricordare com’erano le tue a quindici anni, il suo sguardo assomiglia a quello con cui guardavi, riconosci quant’erano forti i tuoi muscoli e come lui deve sentirsi fragile ora. Lo intravedi adulto, come una persona distinta, anche perché lì dentro ormai trasporta anche te. Jim Morrison, che ascoltavi alla sua età, era convinto di essere abitato dallo spirito di un indiano che aveva visto morire un giorno in autostrada. Solo che tu sei l’indiano, e tuo figlio è Jim Morrison. Ma forse quelli che riconosci come tuoi sono i geni di tuo padre che si sono accesi anche in lui. Oppure è solo un momento di equilibrio, un’età di mezzo, in cui il tuo corpo e le sue parti – le rughe sulle giunture delle dita, la linea del mento, la pelle dei gomiti – conservano un’ultima luce di com’erano quando eri giovane e annunciano la prima ombra di come diventeranno quando sarai vecchio.
La cosa strana, e bella, è che quell’accensione in te dei geni del padre assomiglia a un ricongiungimento, ma anche alla presa di coscienza di una distanza. È grazie all’assenza che ritrovi in te qualcosa di lui. Lo stesso può capitare con il figlio: la tua presenza nel suo corpo segna il distacco, la sua possibilità di essere solo, il suo essere diventato davvero un altro e la tua fatica di prenderne atto e di lasciarlo andare via. Il momento in cui riconosci di essere figlio è il momento in cui diventi padre davvero, perché smetti di essere entrambi: lasci la presa e ogni pretesa sull’altro che hai fatto nascere, perché ormai nel suo corpo riconosci il desiderio e la paura che avevi tu quando hai incominciato a essere solo, a essere una persona distinta dai tuoi genitori, e ti ricongiungi con tuo padre perché finalmente riconosci nel te di oggi l’immagine di lui allora, accettando per la prima volta la debolezza di entrambi.
Quando succede, e se succede, tutto si mischia e confonde. La gerarchia organizzata secondo il tempo scompare e le generazioni si affiancano. Attraverso il corpo del figlio riconosci quello di tuo padre da ragazzo, e il suo da uomo, e il tuo da vecchio; riconosci i corpi come vestiti che si trasformano, come cose vive, autonome che non sono date una volta per sempre come le scatole, ma crescono e muoiono. Le generazioni smettono di essere un criterio con cui mettere in fila l’umanità. Appaiono un accidente, un casuale prima e poi che lega e allontana. Nel momento in cui i geni si accendono, tuo padre e tuo figlio smettono di essere funzioni e ruoli in rapporto a ciò che sei tu, si staccano, diventano altri, non più personaggi, persone, cioè si rivelano uomini, quindi fratelli.
Una delle ultime volte che ho visto mio padre gli ho fatto la barba per l’unica volta, e mi sono ricordato di quando mi aveva insegnato lui come passare il rasoio. Ma era prima che morisse e che i suoi geni si accendessero. Questa notte, invece, dormo con mio figlio. Me l’ha chiesto lui, ha un po’ di febbre e la mamma non c’è. Ma ha quindici anni, quasi sedici, ed è probabile che sarà l’ultima volta in cui lo sentirò dormire al mio fianco. Lo ascolto respirare nel buio, forse sta sognando, e non saprò mai se il suo respiro da addormentato e i suoi sogni siano simili ai miei.
Giacomo Papi, “I fratelli Kristmas” (Einaudi stile libero)