Un ragazzo perbene
Mamma aveva il banco in piazza e vendeva fiori. Le altre erano insignificanti in confronto a lei
Oggi è il primo lunedì del mese e l’immagine di mia madre mi torna vivida alla memoria, prende forma, è fatta di carne e m’abbraccia, stringendomi tra i seni come faceva nei momenti di maggiore sconforto. Indosso l’abito buono e mi sembra di sentire la sua manina morbida che mi carezza una spalla. E’ ingobbita, il busto gonfio, le gambe tanto deboli da costringerla ad aiutarsi con il bastone. Si trascina in cucina attraversando la nostra piccola casa, si ferma per riprendere il fiato. La guardo affannata com’è, ha la pelle velata e le vene formano macchie bluastre sul petto. Mi avvio, lungo il viale alberato, verso l’ufficio postale e mi sembra di sentirla parlare, il timbro grave della voce, il tono apprensivo. “Mettite un po’ apposto sta cravatta, che nun ce se crede che sei uno per bene”. Sorrido. Mamma aveva il banco in piazza e vendeva fiori. Diceva che la ginestra era il fiore di chi non ha speranza, e se veniva una persona che non le sembrava abbastanza scoraggiata, non gliela vendeva: “Si prenda le rose piuttosto signò, che so’ per l’apatia. La ginestra nun glie la do che me pare uno spreco”. Se invece arrivava una signora ben vestita, con la pelliccia di visone intorno alle spalle, i tacchi e le unghie tinte, alzava il sopracciglio e diceva: “Oggi abbiamo solo viole, che so’ per chi è centrato su di sé e quindi per lei le vedo proprio bene signora mia”, poi mi guardava sghignazzando, mentre io ero lì dietro al bancone che già incartavo le viole.
Sapeva parlar di fiori e dell’animo umano, del resto non le importava. Capitava spesso che mentre sbucciava le arance per fare marmellate, o sgranava le fave per farci la minestra, mi ascoltava leggere. Leggevo di Julien che stringe la mano a Madame de Rènal e mia madre arrossiva, si toccava i capelli per nascondere il turbamento. Continuavo, cercando di mascherare l’emozione, mentre la voce, inevitabilmente, si incrinava. Mi ascoltava per ore, dimenticandosi delle fave che teneva nel pugno. Poi, stanca, diceva “Michè, io nun ce sto a capì più niente”, allora chiudevo il libro. Ora i pioppi che vedo mi sembrano ombre, e mia madre, invece, è così vera. Era una donna buona e forte, vivevamo con i suoi fiori e nient’altro.
Quando è diventata così vecchia che non ce la faceva più neanche a innaffiare le piante, io ci sono andato due volte al banco, poi l’ho venduto. Mai ho portato una donna a casa, mi pareva di offendere mia madre. Talvolta, sull’autobus, guardavo una signora con le gambe accavallate che non sapeva di avere la gonna tirata su un lato; seguivo con gli occhi la linea dei polpacci, belli e torniti, le cosce lunghe. Se ero fortunato potevo scorgere le mutandine di cotone bianco. Sotto la doccia ripensavo alla signora dell’autobus, aggiungevo dettagli. Creavo un mosaico di donne: l’ampia scollatura di quella al mercato del pesce, il sedere tondo della vicina. Poi, uscivo dal bagno con l’asciugamano intorno alla vita. Incontravo lo sguardo di mia madre che stirava, mi sorrideva e improvvisamente tutto di quelle donne mi appariva volgare e insignificante. C’è folla all’ufficio postale, “questa confusione è una vergogna, mi chiami il direttore”, dice una signora rossa in viso, “lei non sa fare il suo lavoro” fa un’altra agitando l’indice in aria. Seduto, aspetto il mio turno. Due carabinieri provano a calmare una signora: “Un po’ di pazienza”. Gli odori e le voci che ho intorno mi sono insopportabili. Se penso che qualcuno potrebbe avvicinarsi mi agito, tengo gli occhi bassi, fissando il pavimento perché nessuno possa sentirsi autorizzato a parlarmi. La testa mi gira, tanta è la gente, desidero prendere la busta e tornare a casa. Mi accorgo che sono solo, un rifiuto di un mondo che io stesso ho rifiutato.
L’immagine di mia madre viva e leggera, dagli occhi dolci e le gote rosa, si perde. Ora la vedo seduta al mio fianco, con la testa appoggiata sulle mie gambe. Pare stia dormendo, ma l’incarnato è grigio, le labbra tumide e ha un rivolo di sangue all’angolo della bocca. Che bel cadavere, il più bello di tutti! Le bacio il collo, così freddo al tatto, mentre la sua mano bianca penzola toccando in terra. E’ il mio turno, consegno allo sportellista i do-cumenti e la delega per ritirare la pensione di mia madre. E’ un ometto minuto, legge il mio nome e poi scambia uno sguardo d’intesa con il carabiniere. Arrivano i due in divisa e mi bloccano le mani dietro la schiena, ho male alle spalle perché ho le ossa fragili. “Lei ha percepito indebitamente la pensione di sua madre morta per 14 anni, ha un debito con lo Stato di centomila euro” grida uno dei due, mentre l’attenzione di tutti è rivolta su di me. Mi sembra di svenire. Con la coda dell’occhio scorgo mia madre, ora in piedi in fondo alla sala, le guance di nuovo rosa, con la candida mano fa segno di stare tranquillo. “A questi, che ci hanno l’odio dentro e sono rancorosi, glie damo la camelia bianca, che almeno s’acchetano”. Sorrido, chiudo gli occhi e mi sento di nuovo in pace, adesso, con mamma.
Anna Giurickovic Dato esordisce in libreria con “La figlia femmina” (Fazi editore)