Gli eroi e noi
Lo strazio di Odisseo verso suo padre, l’amore che annienta anche l’ira. Lo scandalo antico del dolore
La morsa di un abbraccio fra padri e figli chiude i due più antichi esemplari della letteratura occidentale. Odisseo, nel poema che porta il suo nome e che molti considerano il primo vero romanzo della nostra storia, si avvia verso i campi dove il padre Laerte si è ritirato, fuori città, a rimasticare il dolore che vive da vent’anni, da quando suo figlio ha lasciato Itaca. Non sa nulla della strage dei pretendenti che si è consumata dopo la leggendaria sfida con l’arco e non sa che Odisseo è tornato e ha ripreso il suo posto nella reggia. Sta zappando, veste una tunica sporca e rappezzata, gambiere di pelli per ripararsi dai graffi, sul capo un berretto di pelle di capra. Odisseo lo vede da lontano e viene preso dalla rabbia. Può un padre tanto giusto essere costretto a soffrire pene del genere? Come è ammissibile che un figlio con la sua assenza generi tanto dolore? Succede qualcosa di straordinario, ora. Gli aedi omerici cantano una scena straziante e geniale. Odisseo si avvicina al padre e tanta è la rabbia che anziché stringerlo subito al petto, evita di rivelarsi e prende a trattarlo con durezza. “Non sei ben curato; della vecchiaia / hai la bruttezza, e sei sporco e vesti panni indecenti”. Noi lettori moderni restiamo di sasso. Cosa sta accadendo? Per molti versi ascoltiamo Odisseo che si finge straniero e continua a maltrattare il padre finché questi viene preso da una “nube di strazio”. Allora capiamo. E’ la rabbia di un figlio che vede la sofferenza ingiusta di un padre, la rabbia più insopportabile che spinge l’eroe a un’incongrua durezza con Laerte e soprattutto con se stesso. Finché l’amore annienta anche l’ira. “Si gonfiò il cuore del figlio, punse il suo naso / acuta voglia di piangere, a veder così il padre. / E si slanciò ad abbracciarlo e lo baciava e diceva…”.
Solo apparentemente molto diversa è la scena conclusiva dell’Iliade. E’ notte. Nel campo degli Achei, la tenda di Achille è aperta. Achille siede pensieroso. Da una parte giace il corpo senza vita di Ettore. Un vecchio si affaccia e chiede di entrare. Achille è senza parole. Il vecchio è Priamo, padre di Ettore, re di Troia. L’uno davanti all’altro noi osserviamo i due più acerrimi nemici. Achille infatti non può che odiare il padre dell’uomo che gli ha ucciso Patroclo, l’amico più amato. Neppure Priamo può evitare di provare odio nei confronti dell’uomo che gli ha ucciso Ettore, il figlio più amato. Dovrebbe esserci solo odio, insomma. E invece no. Con arte sublime, gli aedi omerici scostano il velo e ci fanno vedere tutt’altro. Solo un padre e un figlio. Un padre che ha perso suo figlio. E un figlio che non tornerà mai a casa e sa che suo padre non potrà riabbracciarlo mai più. Achille infatti vede in Priamo non il nemico, ma un vecchio distrutto dal dolore per la perdita del figlio. Vede in Priamo suo padre Peleo, il vecchio padre che sarà presto distrutto dal dolore. Allo stesso tempo, Priamo vede in Achille l’eroe, il giovane capace di sbaragliare chiunque sul campo di battaglia, l’uomo generoso e disposto a tutto. Priamo in Achille vede Ettore. E così accade qualcosa di enorme. L’abbraccio e il pianto di un padre e un figlio.
Padri e figli fin dalle origini della nostra letteratura. Lo scandalo del dolore e della perdita. L’ebbrezza dell’amore e di un sogno di identificazione e immortalità. Nessun grande scrittore ha potuto evitare la sfida. Tentare anche solo un approssimativo elenco di quanti sono seguiti agli aedi omerici sarebbe impresa disperata. Ma forse per spiegare definitivamente e con chiarezza il motivo di tanta presenza bisogna tornare ancora indietro nei secoli, cercando tra gli scritti di uno dei più grandi esperti di Omero, uno che Omero lo avrebbe addirittura condannato, ossia il più celebre fra i filosofi dell’antichità. “La procreazione è ciò che di eterno e immortale spetta a un mortale” scrisse Platone nel Simposio. Ma non si fermò a spiegare l’immortalità che cerchiamo di conquistarci attraverso i figli. Spiegò subito che non esiste soltanto procreazione attraverso il corpo, perché si generano figli anche attraverso l’anima. E fra le opere che lo spirito dà alla luce, a poesia e letteratura spetta forse il posto più alto. “Le parole – avrebbe scritto nel Fedro – non sono sterili. Poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre anime, esse sono capaci di rendere questo seme immortale e rendono chi lo possiede beato, quanto può esserlo un umano”. Ecco perché non smetteremo mai di fare i conti con il dolore dei padri e il dolore dei figli, con la sofferenza del distacco, l’ingiustizia della perdita, la bellezza del confronto. Scrivere di padri e scrivere di figli. Accettare la sfida. Aspirare al pezzetto di beatitudine che ci è concessa. E riconoscere i nostri debiti. Anche per questo il titolo del romanzo a cui ho lavorato più di cinque anni è un verso cantato dagli aedi omerici: “E’ giusto obbedire alla notte”.
L'ultimo romanzo di Matteo Nucci, “E’ giusto obbedire alla notte” (Ponte alle Grazie), è candidato al Premio Strega